La ricerca della Fondazione David Hume evidenzia che la cosiddetta Terza società, cioè i cittadini senza garanzie perché lavorano in nero o non hanno un'occupazione, è arrivata a pesare il 29,7% delle forze di lavoro. E 4,7 milioni di questi outsider vivono nel Sud. Sul fronte opposto, nell'ultima fase della crisi le fasce più abbienti della popolazione sono diventate ancora più ricche. A livello mondiale invece la differenza tra ricchi e poveri è diminuita grazie al boom economico di Cina e India
Il quarto Stato della Francia pre-rivoluzionaria c’è anche nell’Italia del XXI secolo. A cambiare è solo la definizione: oggi si chiama Terza società ed è composta da nove milioni di italiani (spiccano i giovani e le donne) “esclusi“, che non lavorano o lo fanno in nero, senza alcuna garanzia. Tutti insieme rappresentano il 29,7% delle forze di lavoro e in più della metà dei casi vivono nel Mezzogiorno. Secondo la ponderosa ricerca sulla disuguaglianza della Fondazione David Hume anticipata da Il Sole 24 Ore, è l’aumento del loro peso percentuale sul totale dei cittadini, andato di pari passo con l’allargarsi dello storico divario Nord-Sud, che ha determinato l’aumento della disparità tra ricchi e poveri nella Penisola durante gli anni della crisi.
Nel frattempo, appunto, è aumentata in modo esponenziale la consistenza della “Terza società”: nel 2006 gli outsider senza diritti acquisiti e senza un’occupazione stabile erano poco più di 7 milioni, il 24,7% delle forze di lavoro, nel 2009 erano saliti a 7,6 e nel 2012 hanno superato quota 8 milioni. Poi l’ulteriore boom, che ha portato il numero complessivo a 8,99 milioni di cui 3,2 milioni di occupati in nero, 2,9 milioni che non cercano attivamente lavoro e 2,8 milioni di disoccupati in cerca di un posto. Il rapporto paragona il loro peso percentuale con quello degli altri Paesi Ocse, arrivando alla conclusione che è il quinto più alto dopo quelli di Grecia, Croazia, Spagna e Bulgaria. La media Ocse si ferma al 17,2%, quella dell’Unione europea è al 20,2.
In generale, la disuguaglianza all’interno dei singoli Paesi mostra un forte incremento a partire dal 1982, anche in seguito al boom di Cina e India che hanno visto formarsi per la prima volta una classe media e un drappello di super ricchi. Ma anche lasciando fuori Pechino e Nuova Delhi l’indice mostra un rialzo a metà anni ’90, per poi mantenersi stabile. Difficile però dare un giudizio complessivo, perché le diverse aree del mondo hanno sperimentato dinamiche molto diverse: in Russia e negli altri Paesi dell’ex blocco comunista la disuguaglianza ha fatto un balzo all’insù dopo la caduta dell’Urss, passando da un Gini poco superiore a 0,2 a un picco dello 0,38 a fine anni Novanta, per poi assestarsi a 0,35. Cina e India hanno fatto registrare, sempre a partire dagli anni Novanta, un aumento dei divari fortissimo ma più graduale. Mentre il “blocco” dell’Europa occidentale e quello statunitense hanno visto le disparità salire in modo più misurato ma costante. Al contrario, l’America Latina e la maggior parte dei Paesi africani hanno messo a segno un calo dell’indice dalla fine del secolo scorso in avanti.
Il verdetto è più chiaro se si allarga lo sguardo alle disuguaglianze tra Paesi. Soprattutto, anche qui, per effetto delle eccezionali performance economiche cinesi e indiana, a partire dal 1980 il divario tra i cittadini del globo ha iniziato a scendere, a ritmo sempre più veloce a partire dal 2000. Nel 2012, il valore dell’indice di Gini era a 0,45, contro lo 0,57 del 1980. Anche escludendo India e Cina, peraltro, la tendenza resta la stessa, anche se meno marcata. Un esito a cui ha contribuito pure il parallelo rallentamento delle economie avanzate. Nel complesso, dunque, il pianeta risulta un po’ meno “disuguale”.