Il Consiglio Europeo straordinario di giovedì 23 aprile è stata un’incredibile occasione mancata. Se l’attenzione della scena internazionale e il rincorrersi delle dichiarazioni di solidarietà dei leader europei nei giorni immediatamente successivi all’ennesima tragedia ci avevano fatto ben sperare in una nuova presa di coscienza della necessità di una risposta davvero europea, quelle speranze si sono infrante in fretta sugli scogli delle timide e deludenti Conclusioni del Consiglio.
Troppo spesso si sente fare la domanda: dov’è l’Europa davanti a Lampedusa? Eppure la domanda è imprecisa. Se guardiamo ai dati reali capiamo che 6 Stati Membri su 28 hanno affrontato l’anno scorso il 77% delle richieste d’asilo (Germania, Svezia, Francia, Italia, Ungheria, Inghilterra). La domanda giusta è: dove sono gli altri 22 governi europei? Dove sono quella solidarietà e quella condivisione della responsabilità cui fa esplicito riferimento l’art. 80 del Trattato sul funzionamento dell’Ue? Questa è una lunga storia di mancanza di volontà politica dei governi europei, da sempre troppo gelosi delle proprie competenze in materia per attuare politiche davvero comuni. Di sistema europeo d’asilo comune si parla da vent’anni, ed è triste registrare che abbiamo fatto prima ad avere un cimitero europeo comune, il Mar Mediterraneo.
Triplicare i fondi all’operazione Triton, l’hanno già detto in molti, non è sufficiente. Come alcuni di noi in Parlamento fanno notare sin da quando è stata lanciata, non è solo un problema di finanziamenti e mezzi a disposizione. Essa manca di un chiaro mandato di ricerca e soccorso in mare, manca delle competenze necessarie ad effettuare operazioni delicate come queste, e mentre Mare Nostrum si spingeva fino a 172 miglia dalle acque territoriali italiane, Triton copre solo fino a 30 miglia. In quella differenza, le persone hanno ricominciato a morire, e senza un preciso mandato umanitario e l’estensione dell’area di operatività, c’è rischio che continueranno a farlo.
Ma è forse un altro l’aspetto che più colpisce delle Conclusioni del Consiglio. I governi sembrano ossessionati da un unico obiettivo: evitare l’arrivo dei migranti in Europa, in ossequio a quell’approccio unicamente securitario che pure ha sempre dimostrato di essere fallimentare. Di qui l’enfasi del documento sulla lotta ai trafficanti di esseri umani e sulla distruzione delle barche, così come sulla cooperazione coi paesi di transito. Questi sono aspetti senz’altro importanti, ma non risolutivi, perché non incidono sulle cause alla radice di queste fughe disperate, né sulla necessità di garantire a chi fugge da guerre, discriminazioni di ogni sorta e torture la possibilità di chiedere l’asilo, diritto fondamentale – è sempre bene ricordarlo- sancito dal diritto internazionale ed europeo.
Non una parola, dunque, è stata spesa ieri su come creare vie sicure e legali d’accesso all’Europa. È questo, forse, l’aspetto più inquietante. Non una parola sulla possibilità di emettere visti umanitari, sulla scorta dell’esperienza positiva di altri paesi (come il Brasile), quantomeno sul caso dei siriani: essi rappresentano il 20% delle richieste d’asilo effettuate in Europa nel 2014, accolte nel 95% dei casi. Questo alleggerirebbe enormemente il carico di lavoro nell’esame delle richieste, che implica costi e tempi per poi giungere allo stesso risultato. Non una parola sull’apertura di canali umanitari che soli possono sostituire il cinico e spietato mercato di chi specula sulla disperazione, evitando cioé che le persone in fuga finiscano nelle mani dei trafficanti.
E qui è bene sgombrare il dibattito da una serie di argomentazioni surreali con cui viene quotidianamente infarcito, solitamente da chi non ha fatto nemmeno lo sforzo di approfondire il tema. L’anno scorso sono state effettuate in Europa 626.000 richieste d’asilo. Numeri che alcuni sbandierano per alimentare l’idea che l’Europa, un continente di 500 milioni di abitanti, sia sotto assedio. Ignorando che un paese come il Libano ospita oltre un milione di rifugiati siriani, da solo. E cifre altrettanto alte si vedono in Giordania ed altri paesi dell’area. Quindi non solo non è vero che accogliamo tutti noi, ma il confronto è persino imbarazzante. Secondariamente poi, è evidente che se gli sforzi fossero equamente ripartiti tramite meccanismi di reinsediamento nei diversi Stati membri, sarebbero sostenibili per tutti, anziché pesare principalmente solo su sei Stati membri.
Su un tema così complesso servono soluzioni di breve e di lungo termine. Su quelle di breve si è già detto: un’operazione europea di ricerca e soccorso in mare dotata di mezzi, fondi, mandato e area di operatività adeguati, l’apertura di canali sicuri e legali di accesso per chi cerca protezione internazionale, e un ripensamento del sistema di Dublino che superi il criterio del primo paese di arrivo verso un meccanismo di equa ripartizione degli sforzi tra Stati membri (ad esempio con quote basate su indici demografici ed economici). Nel lungo termine, invece, la vera questione è lavorare per la stabilità dell’area, con una politica estera europea più efficace e lungimirante che eviti gli errori del passato, così come una lotta alle diseguaglianze su scala globale. Che quella delle diseguaglianze, tanto sottovalutata, è la questione cruciale dei nostri tempi. In un mondo in cui il 70% delle risorse sta nelle mani del 30% della popolazione, c’è poco da stupirsi di chi parte per andare là dove le opportunità sono così concentrate.
Nel Parlamento Europeo in molti porteremo avanti la battaglia e insisteremo su tutti questi aspetti, su un nuovo approccio olistico al tema, e lo faremo anche con una specifica risoluzione su cui la Commissione Libe sta già lavorando. Nel frattempo, però, l’amarezza è tanta, di fronte all’incapacità dei governi di fare l’Unione davvero. Queste vite non sono in fuga verso l’Italia, verso la Grecia o Malta, sono in fuga verso l’Europa. Ed è per questo che serve una risposta davvero europea.