Musicisti in rivolta. La riforma del mercato del lavoro varata dal governo ha eliminato l’associazione in partecipazione. La forma contrattuale che fino ad oggi regolava il rapporto tra case discografiche e star. La denuncia della Fimi: “Secondo la legge dovremo assumere i cantanti come fossero dipendenti comuni. Impraticabile”
Sono lavoratori del tutto particolari. E non potrebbe essere diversamente vista la natura artistica dell’attività professionale delle star della musica italiana. Fino a qualche settimana fa il loro rapporto con le case discografiche era regolato dal contratto di “associazione in partecipazione“. E funzionava più o meno così: il produttore riconosceva all’artista una percentuale degli utili sui dischi venduti. Poi è arrivato il Jobs Act e la musica è cambiata. Perché con il riordino delle tipologie contrattuali l’associazione in partecipazione è stata soppressa. «E adesso cosa dovrebbero fare i produttori, assumere Vasco Rossi a tutele crescenti e magari fargli timbrare il cartellino?», ironizza un esperto del settore discografico sentito da ilfattoquotidiano.it.
NOTA STONATA E non solo il cantautore modenese. Da Laura Pausini a Jovanotti, da Antonello Venditti a Francesco De Gregori, anche per tutti i più noti artisti italiani, stando alla riforma varata dal governo Renzi, si prefigura un futuro da lavoratori dipendenti. Insomma, un trattamento equiparabile a quello di un comune impiegato che per la Federazione industria musicale italiana (Fimi) suona, è proprio il caso di dirlo, come una nota stonata. «Un’ipotesi del tutto impraticabile – assicura Enzo Mazza, consigliere delegato della Fimi –. Siamo di fronte ad un paradosso che pensavamo di aver risolto definitivamente e, invece, per la seconda volta, come nel gioco dell’oca, si ritorna di nuovo al punto di partenza». Già, perché il vulnus normativo era stato aperto già dalla legge Fornero che aveva ricondotto il contratto di associazione in partecipazione nella sfera del lavoro subordinato. Fino alla marcia indietro del 2013 che lo aveva ripristinato per regolare il rapporto fra produttori e artisti nell’attività di «realizzazione di registrazioni sonore, audiovisive o di sequenze di immagini in movimento». Poi, però, ci ha pensato il Jobs Act a riaprire un capitolo che sembrava ormai chiuso.
SENTI CHE MUSICA «E’ vero, in molti ambiti produttivi, come ad esempio il settore del commercio, si è abusato di questa tipologia contrattuale per aggirare la legge ed evitare di assumere i dipendenti – prosegue Mazza –. Ma per arginare un malcostume diffuso si è andati a colpire anche il settore discografico nel quale, come hanno certificato diverse pronunce della magistratura, l’associazione in partecipazione è un contratto non solo legittimo ma anche il più appropriato alla particolare natura della prestazione». E ora come se ne esce? Secondo la Fimi la soluzione migliore sarebbe quella, come già accaduto dopo la legge Fornero, di escludere l’applicazione del Jobs Act a questa particolare categoria di lavoratori. «Diversamente non resterebbe che un’alternativa: studiare nuove formule contrattuali ritrovandoci esposti a lunghe trafile giudiziarie prima di ottenerne la legittimazione giuridica – conclude Mazza –. Il tutto per meno di mille casi: a tanto ammontano, infatti, le associazioni in partecipazione nel nostro settore». E pensare che, solo pochi giorni fa, Matteo Renzi aveva avvertito minaccioso la minoranza del Partito democratico: le riforme non sono «il Monopoli». Eppure, proprio come nel Monopoli, con il Jobs Act i produttori discografici saranno costretti a ripartire proprio dall’inizio.
Twitter: @Antonio_Pitoni