Piove. Acqua mista a neve. C’è questo vento gelido. E semplicemente, questa distesa di erba. Prima dell’arrivo degli alleati, i nazisti, per cancellare ogni prova, bruciarono tutto. I forni crematori. Le camere a gas. E quindi oggi non rimane che questa distesa di erba.
Questa distesa di cenere.
Mi è venuto in mente mio padre. La prima volta che è stato a Gerusalemme. E una sera, in uno dei miei caffè preferiti, il Tmol Shilshom, ha chiesto qualcosa di tipico israeliano. La cameriera ci ha pensato, poi gli ha detto: ‘Non esiste niente di tipico israeliano. Esiste un po’ di tutto, qui, – gli ha detto-. Ma non esiste niente di veramente nostro’.
E mi è venuto in mente il Viale dei Giusti. La prima volta che sono stata allo Yad Vashem, il Museo dell’Olocausto. Il viale dedicato ai non ebrei che rischiarono la vita per aiutare gli ebrei. E abituata ai boschi della Toscana, le querce, i pini i tigli, i lecci, mi aspettavo questo viale maestoso. Imponente. Il Viale dei Giusti. Mi aspettavo questi alberi – che idiota: questi alberi secolari. Perché invece sono stati piantati nel 1962. E sono ancora così piccoli. Così esili. Hanno quest’aria così fragile.
Fragile come Israele.
Che è una cosa che è vietato dire, tra chi, come me, ha casa a Ramallah: dall’altra parte del Muro. Perché leggi un giornale, in Israele, un giornale qualsiasi, e ogni giorno, ancora, hai un articolo sull’Olocausto. L’Olocausto è onnipresente, in Israele. Come se fosse finito ieri. E soprattutto, come se potesse ricominciare domani. E si discute molto, allora, dell’uso politico, l’uso strumentale della storia. Perché alcuni hanno interesse a perpetuare questa idea della fragilità, appunto, degli israeliani. Come se ancora fossero gli ebrei dell’Europa degli anni Trenta: come se fossero i più deboli, in Medio Oriente, come se fossero loro quelli sotto assedio, invece che quelli che assediano. Che bombardano. Quelli che hanno il nucleare. E’ vero. E solo che nella vita la realtà percepita, alla fine, conta quanto la realtà reale. Anzi, forse è la sola realtà.
Perché poi tra israeliani e palestinesi, come dice sempre Mustafa Barghouti, non è che sia complicato trovare una soluzione. Nel senso: dividere la terra in due Stati, o crearne uno solo, o anche tre, quattro. Dieci. Mica è difficile, dice. I quattro punti lasciati aperti a Oslo: i confini, Gerusalemme, gli insediamenti, i rifugiati: tecnicamente dice, la soluzione non è difficile. Il problema è una soluzione con cui gli israeliani si sentano sicuri – non: con cui siano sicuri. Non solo: con cui si sentano sicuri.
Tra israeliani e palestinesi, ormai, è questione più di psicoanalisti che di mediatori.
Perché in fondo ogni paese, la Bosnia, la Siria, il Libano, il Ruanda: nessuno pensava che sarebbe stato possibile. E poi, invece. Diceva Elie Wiesel: nel posto da cui arrivo, la società era formata da tre semplici categorie: gli assassini, le vittime, e quelli che stavano a guardare. Ed è vero, non siamo più negli anni Trenta.
Non è Israele, oggi, quello sotto assedio. E però non possiamo non vedere quelli che qui ad Auschwitz sorridono, e si scattano un selfie.