Il ragazzo ha perso il papà quando aveva dodici anni. La mamma ha una salute assai minata. Tra varie altre patologie, ha un problema di epilessia. Il figlio si prende cura di lei con affetto. Tempo fa il medico prescrive alla donna derivati della cannabis. Se si può soffrire di meno, perché non farlo? Ma in Italia non è certo facile comprare cannabinoidi alla luce del sole e nel rispetto delle leggi. Il giovane, sapendo di averne un bisogno continuato e non sporadico, decide di coltivare quattro piantine.
Questa storia finisce con un anno di galera. È questa la pena che lo scorso lunedì 13 aprile un Tribunale romano ha inflitto al ragazzo. L’accusa è quella di spaccio: due più due fa quattro e, vista la quantità di sostanza che c’era in quei vasi, non poteva essere uso personale. La storia singola, l’individualità della vicenda, anche la drammaticità e il peso sulle spalle del suo protagonista, non sono elementi che riescono a venire intercettati dal sistema della giustizia e dalla normativa italiana sulle droghe.
Il mio collega avvocato di Antigone aveva aiutato il ragazzo, assistendolo nel produrre tutta la documentazione rilevante affinché la situazione emergesse con chiarezza (ad esempio la prescrizione del medico), ma è stato inutile di fronte allo schiacciasassi del più becero proibizionismo. Pensate: nella sentenza è scritto nero su bianco che la decisione di coltivare le quattro piantine è stata dettata da “nobili motivi”. Ma un anno di carcere ci voleva lo stesso!
E allora teniamoci questa legge, che ingrassa le mafie, che devasta le famiglie, che intasa la giustizia, che fa spendere una barca di soldi ai cittadini, che calpesta ogni significato della parola libertà e che non sa distinguere tra uno spacciatore di professione e un ragazzo che vuole aiutare sua madre.