Dopo aver oltrepassato il metal detector faccio il mio primo ingresso nell’aula bunker di Via Uccelli di Nemi a Milano. L’aria condizionata non c’è e quella naturale filtra dai finestroni protetti dalle inferiate. Quando il caldo diventa insopportabile, nell’interminabile attesa dell’arrivo dei detenuti, gli agenti di guardia spalancano le porte di sicurezza. Ma più le ore passano più la temperatura sale e l’aria si fa più afosa. Nel frattempo la tribuna riservata al pubblico, alle spalle della zona in cui sono sistemati i banchi della difesa, si riempie dei familiari dei detenuti venuti ad assistere al processo.
Sono naturalmente un po’ teso: mi devo costituire parte civile per l’associazione nazionale antiracket di cui faccio parte in un processo di ‘ndrangheta.
Ero arrivato la notte prima e non avevo chiuso occhio. Ma non sento la stanchezza, anche se per un attimo ho temuto di non essere all’altezza dell’incarico.
Quando decisi di entrare a far parte dell’associazione nazionale antimafia e di difendere le vittime di usura e di estorsione non lo feci per una questione economica. Decisi di rendermi utile, come una qualunque persona che si sente di mettersi all’opera per un fine sociale. Non chiesi mai un rimborso spese per l’attività svolta per conto dell’associazione o delle vittime né utilizzai quella strada per la mia personale carriera.
A Milano, durante il processo “Infinito”, l’avvocato di un boss di ‘ndrangheta mi accusò non tanto velatamente di essere uno di quei “professionisti dell’antimafia” che faceva parte di un’associazione dedita al “turismo giudiziario”.
Mi venne data l’opportunità di replicare ovviamente. Il collega aveva inoltre sollecitato la mia memoria.
Quando uscì l’articolo di Leonardo Sciascia dal titolo ‘I professionisti dell’antimafia’ sul Corriere della Sera era il 10 gennaio 1987 ed io avevo appena 11 anni. Ancora la mia adolescenza non era “distratta” dalla lettura dei quotidiani. Di quello che narrò lo scrittore siciliano de ‘Il giorno della civetta’ ne sentii parlare negli anni successivi anche per le differenti analisi e i più disparati utilizzi che ne fecero giornalisti e uomini politici.
In molti non capirono, o fecero finta di non capire, il senso di quell’articolo. Sciascia, che del fenomeno mafioso era profondo conoscitore quando scriveva di “professionisti dell’antimafia” intendeva riferirsi a coloro che usavano l’antimafia per costruirsi una carriera in politica o in magistratura. Ma poiché Sciascia in quell’articolo evocò l’assegnazione di Paolo Borsellino alla Procura di Marsala, superando nella graduatoria colleghi più anziani di lui ma che non si erano mai occupati di processi di mafia, fece un esempio che lo espose a molte critiche. C’è chi credette, erroneamente, ad un attacco personale al magistrato ucciso nell’agguato mafioso di Via D’Amelio qualche anno più tardi, e non glielo perdonò.
Ma la chiave di lettura dell’articolo di Sciascia, che non riguardava il caso di Borsellino, era un’altra e, nonostante siano trascorsi ben trent’anni, oggi è ancora attuale: c’è chi usa l’antimafia per fini esclusivamente personali, per cercare un consenso per sé nella logica di una assoluta autoreferenzialità.
In un’intervista che rilasciò qualche giorno dopo l’uscita del tanto contestato articolo, su Il Messaggero Sciascia ritornò ancora sull‘argomento: “Ieri c’erano vantaggi a fingere d’ignorare che la mafia esistesse; oggi ci sono vantaggi a proclamare che la mafia esiste e che bisogna combatterla con tutti i mezzi”.