Ci sono tanti modi per contestare un evento come Expo 2015. Ci sono i black bloc, ma c’è anche chi in questi anni ha costruito un percorso intorno al suo No. Un No a questo Expo.
A poche ore dall’avvio della più importante vetrina del mondo ho cercato di capire perché Expo 2015 non piace a tante associazioni di piccoli produttori. Monica Di Sisto, vicepresidente di Fair Wartch (associazione per un’economia sociale) mi ha dato due dati fondamentali che insieme spiegano le sue ragioni. Il primo: l’80% del cibo consumato dai Paesi non industrializzati arriva da piccole aziende agroalimentari, un modello di impresa che la stessa FAO ha riconosciuto come soluzione per un’equa distribuzione del cibo. Il secondo dato: le multinazionali producono l’8% circa del cibo nel mondo. Ma è sulla base di quell’8% che viene deciso se un cibo è sano o meno, quali siano le regole sanitarie da rispettare e tante altre norme cucite su un modello di produzione industriale, e non di piccole dimensioni. Un modello che – va detto – può anche farci stare più tranquilli, ma che, a causa della rigidità di alcune regole, dei costi e della burocrazia, spesso impedisce al piccolo produttore l’accesso al mercato nonostante la qualità del suo prodotto. L’equazione è presto fatta: un mercato che incentiva grandi gruppi agroalimentari a scapito dei produttori locali.
“A Expo2015 i visitatori conosceranno cibo Frankestein, il cibo fatto come il sapone – spiega Monica Di Sisto – con materie prime di scarsa qualità che non sono legate al territorio, e prodotto con manodopera sfruttata”. Eppure la sensazione di queste prime ore di Expo appare un po’ diversa, con la “battaglia scenografica” tra McDonald’s e Slow Food che hanno i padiglioni a pochi metri di distanza. Il primo assicura un cambio di rotta, con prodotti 100% italiani, e il lancio di Fattore Futuro, l’associazione piemontese invece ricorda ai vicini americano che “nutrire non è ingozzare”.
Fumo negli occhi per chi non crede in Expo: la kermesse milanese non sarebbe altro che un’occasione per stringere alleanze nell’agroalimentare già dominanti e che incentiveranno accordi internazionali come il TTIP, l’accordo di libero scambio tra Europa e Stati Uniti, al centro della critica pubblica per i suoi lati oscuri.
Ed è proprio sul TTIP che Fair Watch, insieme a Movimento Consumatori, così come tante altre associazioni cittadine di tutto il mondo, si sono attivate per vederci chiaro e per chiedere ai governi coinvolti che questo trattato non passasse inosservato. Ci sono riusciti. Un accordo che doveva essere approvato entro l’inizio di Expo, è oggi ancora sui tavoli di discussione sotto la lente di ingrandimento dell’opinione pubblica attenta che le norme di safety food siano approvate nell’interesse del consumatore.
Io sono un’Expo ottimista, ma al di là di come la si pensi, l’impegno, la determinazione e la costanza di chi si attiva concretamente nell’interesse di sistemi produttivi equi e che non favoriscano l’interesse di pochi è strumento sicuramente più efficace di una vetrina devastata o di una macchina incendiata.