È una cosa assolutamente ovvia che il prezzo di una casa, identica a un’altra come qualità, cioè con costi di costruzione identici, cresca in proporzione a quante case di quel tipo sono disponibili sul mercato, cioè ai vincoli posti alla costruzione di case. Un recente studio dell’Università di Yale per esempio dimostra che i costi di costruzione delle case sono rimasti pressoché costanti in termini reali, ma i prezzi sono cresciuti del 30% negli scorsi 35 anni (eliminando le fluttuazioni cicliche del mercato). Inutile anche sottolineare che il problema è molto acuto in termini sociali, perché colpisce in proporzione i redditi più bassi, le nuove coppie e gli extracomunitari. L’Economist ha dedicato al fenomeno la copertina e diversi articoli, citando estese evidenze statistiche della correlazione stretta tra i vincoli urbanistici all’edificazione e la crescita della rendita urbana, cioè del valore dei terreni edificabili rispetto a quelli a destinazione agricola.
Questo fenomeno si era storicamente ridotto, e di molto, con l’avvento della motorizzazione privata, che aveva consentito un mercato delle case e dei terreni assai più competitivo, rendendo possibile raggiungere località anche molto esterne in tempi ragionevoli. Oggi invece sembra essersi in parte ripresentato nelle città caratterizzate dall’“industria della conoscenza” (valga per tutti la Silicon Valley in California, ma vengono citate anche Milano e Bangalore…) e dalle grandi concentrazioni di attività finanziarie (Londra, New York). L’aumento di valore delle aree e degli edifici nelle zone centrali, come si cita in uno altro studio recente del Massachusetts Institute of Technology, sembra che sia una delle maggiori cause delle diseguaglianze di reddito evidenziate dal celebre economista neo-marxista Thomas Piketty, e confermate in molti contesti specifici, anche nel nostro Paese.
Accanto a quelle dall’Economist, si possono anche citare le analisi comparative che misurano il numero di annualità di reddito medio necessarie per comprarsi una casa standard: anche da queste analisi emerge una stretta corrispondenza tra la “costosità in relazione al reddito” (“affordability” di W. Cox) della casa, ed i livelli dei vincoli urbanistici all’edificazione. I valori minimi si registrano a Kansas City, celebre per avere vincoli pressoché nulli. Noi ci collochiamo, insieme a tutta l’Europa, su valori medio-alti. Certo: la disponibilità di suolo del Kansas non è esattamente simile a quella italiana, come non è esattamente simile il valore paesaggistico dei due territori. Anzi, il valore paesaggistico di molte parti del territorio italiano è quello di un bene riconosciuto eccezionale a livello mondiale, fonte di rilevanti redditi turistici che si estendono nel futuro, ma costituisce anche un valore culturale irrinunciabile, non riconducibile a mere grandezze economiche. Tuttavia il problema sociale del prezzo delle abitazioni e della distribuzione del reddito permane, ed è accentuato dalla crisi attuale. L’Economist propone di aumentare in termini relativi la pressione fiscale sulle rendite urbane, ma soprattutto di tassare in proporzione di più le case vuote e i terreni edificabili non utilizzati, e meno le case utilizzate, al fine di aumentare l’offerta di abitazioni per questa via, abbassando così i prezzi.
Un’altra soluzione possibile è quella di ridurre i vincoli all’edificabilità in modo selettivo, cioè favorendo la costruzione di edifici nuovi multipiani, anche in aree esterne dove necessariamente i prezzi delle abitazioni sarebbero inferiori (gli alti prezzi sono indissolubilmente connessi all’accessibilità e ai servizi delle aree). Ciò al fine di contenere, dove necessario, il consumo di suolo, anche se le argomentazioni, oggi molto diffuse, che tale consumo vada ridotto per “difendere l’agricoltura” sembrano davvero poco consistenti. Il ricorso a modelli di edilizia sovvenzionata si scontrano invece da un lato con la scarsità di risorse pubbliche, dall’altro con una serie di risultati catastrofici dovuti a gestioni clientelari, disattente ai bisogni sociali reali (il diritto acquisito è “per sempre”, senza verifiche nel tempo dei redditi dei residenti, fenomeno unico in Europa), e ancor meno attente all’illegalità diffusa delle occupazioni abusive. Ma certo nulla vieta di tentare una seria riforma di questa strategia, almeno nel medio periodo.
Rimane infine sullo sfondo il problema delle categorie sociali realmente molto deboli, come i Rom o gli extracomunitari di recentissima immigrazione. Le risposte qui non sono semplici, dati gli elevatissimi standard edificatori che la nostra normativa impone: edifici in cemento armato dotati di ogni servizio, ecc. Eppure come dimenticare che l’integrazione dei gruppi di immigrati “ultimi arrivati” negli Stati Uniti è avventa attraverso la diffusissima pratica (legale) dell’autocostruzione di case semplicissime, e via via di standard più elevati al crescere del reddito? Ma consentire l’autocostruzione in Italia oggi sembra davvero un tema che postulerebbe un diverso approfondimento, come d’altronde quello della dannosissima rigidità del mercato del lavoro causata dalla dominanza, sempre politicamente favorita, della casa in proprietà, con una struttura normativa e fiscale che rende il cambio di residenza per compra-vendita estremamente costoso.
da Il Fatto Quotidiano del 29 aprile 2015