Diritti

Diritto alla casa: ‘Sfrattati’, un ufficiale giudiziario si racconta

Il verbo mediāre che deriva dal latino medĭus “mezzo”, col suo significato di far conseguire o cercare di risolvere con una mediazione: mediare un accordo, una controversia, spiega il compito arduo di chi, nella vita – in numerose e diversificate circostanze – o per mestiere, è chiamato a fare da mediatore tra parti differenti. Nulla di semplice, né di banale, dunque.

Partire da qui per arrivare a ‘Sfrattati‘, l’ultimo libro di Giuseppe Marotta, edito da Corbaccio che, tra riflessioni, sogni, speranze, sconfitte, decisioni e testimonianze, consegna ai lettori il complicato, nonché antipatico lavoro dell’ufficiale giudiziario, mestiere dello stesso autore, chiamato nel quotidiano a dover mediare tra inquilini e proprietari.

Di sfratti ne avevamo già parlato e  in effetti il libro di Marotta, per noi che siamo e restiamo dalla parte dei più deboli, permette di metterci nei panni di chi ha questo impiego, e di chi, soprattutto, e con ogni probabilità, non vorremmo mai stare. Perché? E’ nel sentire comune l’affermazione che “gli ufficiali giudiziari è gente spietata: buttano fuori di casa famiglie intere”, esegue – anche – le sentenze dell’autorità giudiziaria. Nel male e/o nel bene, questo è e le loro esecuzioni si confermano un compito che non vorremmo mai svolgere.

Ma per la lettura di ‘Sfrattati’ ho scelto di fare un passo indietro: conoscere le contrarietà, gli umori, i dubbi, le competenze, la capacità e le possibilità di questo mestiere tanto odiato e criticato dai più.

Prima mi sono misurata con le storie narrate da Marotta. Tra queste quella di Tareq, che ha cinque bambine. Ed è davanti a loro che il padre supplica di poter restare del tempo in quella casa malmessa. Marotta è lì e deve fare il suo dovere: da una parte spiega a Tareq che si deve arrangiare in qualche modo per pagare, dall’altra cerca di addolcire il proprietario della casa, sottolineando la presenza delle cinque bambine in quel nucleo.

Poi c’è Nasim, la cui moglie è incinta. Vivono sotto sfratto da tempo e alla fine, senza attendere l’arrivo dell’ufficiale giudiziario, se ne vanno in silenzio. Ma la loro è la storia di una vendetta, una forma di riscatto personale: si lasceranno alle spalle la casa distrutta. Tra le storie di Marotta non mancano casi più estremi, situazioni di suicidio, come il caso di una coppia che preferirebbe morire al restare senza tetto, o come chi, più semplicemente e umanamente piange disperandosi.

Intervistare Marotta è stato il passo successivo, quello che mi ha permesso di approfondire, grazie a un’intervista, quanto fosse difficile questo “mediare” tra inquilini e proprietari, come vive un ufficiale giudiziario quando rientra a casa propria, sotto il proprio tetto, magari dopo aver sgomberato un appartamento.

Bene, Marotta è stato limpido, esplicativo e soprattutto umano, come lo è del resto in ogni sua pagina, perché “per mediare – mi ha spiegato –  occorre conciliare due esigenze: quella dell’inquilino che spesso non sa dove andare e quella del proprietario che non riceve l’affitto da un secolo. Il primo implora un rinvio, il secondo ti scongiura affinché non vengano concesse altre proroghe. (…) È dura anche perché si discute di un elemento, la casa, che incide profondamente sulla qualità della vita di una persona, forse è il fattore che incide di più: “Sancire accordi è un lavoro da cani” dico a un certo punto nel libro, e ogni volta ti assicuro – ha aggiunto – non è mai piacevole trovarsi in questa situazione”.

Insomma non è possibile non considerare che ci sia qualcosa di doloroso e spiacevole per l’uomo/la donna che, per scelta o altre motivazioni, si ritrova a vivere anche come ufficiale giudiziario.

E questo si avverte con forza in ogni parola pronunciata da Marotta. Soprattutto quando in chiusura di intervista si è sbottonato con compassione e, “Negli sfratti – si è espresso quasi a confidarsi – non sono ancora riuscito ad abituarmi alle facce disperate dei padri che si siedono davanti alla mia scrivania, qualche giorno prima dello sfratto, e mi chiedono un rinvio perché hanno perso il lavoro, non sanno dove andare e hanno figli piccoli. Non so, questa figura paterna che umiliandosi implora l’ennesimo rinvio, questa scena così pietosa, ogni volta, mi deprime, nel senso letterale del termine. Percepisco tutta l’ingiustizia sociale che essa racchiude.”

Va da sé che, a volerci vedere chiaro, se di buoni e cattivi si vuole parlare ce ne sono sia di proprietari quanto di inquilini. Noi restiamo sempre dalla parte dei più deboli per i quali continuiamo a lottare, in caso di sfratto, per il passaggio da casa a casa.