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Pensioni, ora si rispetti la sentenza della Consulta

A quasi quattro anni dalla riforma Fornero delle pensioni, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’articolo che bloccava la perequazione delle pensioni di importo superiore a 3 volte il minimo.

La mancata perequazione delle pensioni non era il solo punto debole della riforma, datosi che l’approssimazione con la quale fu scritta generò il noto problema degli esodati che ancora si trascina oggi, nonché innalzamenti subitanei
dell’età pensionistica del tutto irrazionali.
Tuttavia il blocco della perequazione applicato a partire da redditi molto bassi (circa 1.500 € lordi/mese) era misura sufficientemente odiosa in quanto colpiva, in maniera fiscale (progressività basata sul reddito) e in un ambito previdenziale, selettivamente solo i redditi da pensione, ignorava gli orientamenti di sentenze precedenti della Corte Costituzionale e riduceva programmaticamente per sempre gli importi delle pensioni, dunque non limitando affatto gli effetti dei “prelievi” alla contingente situazione finanziaria dello Stato. Infatti, la mancata perequazione non è un contributo temporaneo (comunque anch’esso bocciato in passato dalla Corte), ma depaupera in modo percentuale la pensione per sempre.

Per capire meglio gli effetti di questa misura perversa, basta guardare attentamente questo interessante grafico pubblicato sul sito Problemi del lavoro.

 

Dal 1997 al 2019, grazie a successivi provvedimenti di sospensione dell’adeguamento delle pensioni al costo della vita, le stesse hanno perso e avrebbero perso, se la Corte Costituzinale non avesse dichiarato incostituzionale l’ultimo intervento targato Monti/Fornero, percentuali di potere di acquisto reali variabili tra qualche decimale a circa il 12 % e oltre per le pensioni elevate.

La progressività delle perdite di potere d’acquisto identifica chiaramente questi interventi come re-distributivi e a natura essenzialmente fiscale (basati sul reddito); niente che li collochi logicamente nell’ambito previdenziale.

La Corte ha sancito nella sua sentenza la natura fiscale dell’ultimo intervento e la continuità tra reddito da lavoro e assegno pensionistico.

La sentenza ha scatenato ridde di commenti; molti commenti sono pregiudiziali: la Consulta sentenzia pro domo sua perché i giudici sono tutti in età di pensione; la sentenza premia i pensionati a danno dei giovani; la sentenza non tiene conto delle necessità della nazione tutta.

Commenti per lo più infondati che distolgono l’attenzione dal nocciolo duro della sentenza: la costituzione sancisce come ci debba essere continuità tra il tenore di vita possibile durante l’attività lavorativa e quello durante la quiescenza. In spiccioli: chi era benestante durante l’attività lavorativa dovrebbe esserlo proporzionalmente anche a riposo e cercare di abbassargli il tenore di vita con artifizi legislativi non è consentito, almeno nell’ambito della Carta Costituzionale. Ciò può non piacere e non piace certamente a chi pensa che una pensione elevata sia un abuso e che in età di quiescenza si debba mettere fine alle diversità di reddito che invece si tollerano (di malgrado) per i lavoratori attivi; tuttavia la Corte indica che ove si voglia “porre rimedio” alle presunte ingiustizie della società ciò non possa essere fatto per un unico segmento di età.

In parallelo ai commenti più ideologici che giuridici, è già iniziata la gara tutta italiana a chi pensa il modo migliore per aggirare la sentenza della Consulta, la quale per inciso comporta per l’erario la restituzione di minimo 5 miliardi di euro, ma forse del doppio. Quindi si esercita la fantasia; per esempio ipotizzando di interpretare la sentenza come mirata a difendere solo il potere d’acquisto delle pensioni più basse e già prevedendo rimborsi a rate.

La prima idea non solo esporrebbe a ulteriori ricorsi degli esclusi dall’applicazione della sentenza (ma tanto si è capito che il senso civico dei governi nel non lasciare eredità pesanti ai successivi è assai limitato), ma soprattutto, in ragione di quanto spiegato dal grafico, salvaguarderebbe chi dalla non perequazione perde poco in termini percentuali e continuerebbe a colpire chi perde tanto; una cosa che potremmo definire “comunismo nella terza età”, applicato in una società che comunista invece non è nella distribuzione dei redditi da lavoro e che con grande probabilità proprio non vuole esserlo, con l’aggravante della irrispettosità dei principi giuridici e del ruolo della Corte Costituzionale.

Sarebbe opportuno applicare la sentenza senza se e senza ma e focalizzarsi sul come reperire risorse per mantenere i conti in ordine e garantire miglior futuro ai giovani in altre maniere e i suggerimenti sono gli stessi ripetuti fino alla noia: azzerare l’evasione fiscale, imporre agli enti locali i costi standard da subito, eliminare prebende, sprechi ed enti inutili, combattere l’evasione contributiva che tra l’altro genera pensioni basse (e che vengono sussidiate) per individui che hanno accumulato ricchezza anche evadendo.