Musica

Benjamin Clementine, la voce di Nina Simone e una biografia straziante: ecco la nuova promessa della musica nera

E' stato paragonato a Antony Hegarty, Aretha Franklin, Edith Piaf e Leonard Cohen. Paragoni diversi per sesso, timbrica, etnia, e genere musicale; questo perché l'arte di Clementine è difficilmente circoscrivibile. Un frutto ibrido che trascende la world music perché nasce, artisticamente e letteralmente, da un terreno composito

di Matteo Poppi

Benjamin Clementine – cantante, pianista e poeta – con At Least For Now ha scalato classifiche, fatto incetta di premi, e ottenuto il plauso di grandi artisti. Paul McCartney ha paragonato la sua voce a Nina Simone, Björk l’ha voluto come headliner al Wilderness Festival. E questo è solo il primo album. Una voce capace di coprire una vasta gamma tonale; più di due ottave interpretate con un timbrica calda e un’emissione intensa e potente. Un tenore lirico-drammatico, Clementine, capace di un’espressività teatrale che coniuga l’impostazione classica, il pop e il variegato caleidoscopio della musica nera. Oltre a quello fatto dal baronetto di Liverpool, altri sono gli accostamenti eccellenti: Antony Hegarty, Aretha Franklin, Edith Piaf e Leonard Cohen. Paragoni diversi per sesso, timbrica, etnia, e genere musicale; questo perché l’arte di Clementine è difficilmente circoscrivibile. Un frutto ibrido che trascende la world music perché nasce, artisticamente e letteralmente, da un terreno composito.

La biografia di Clementine è infatti anch’essa fluida, melting pot esistenziale. Nato a Londra da genitori ghanesi, passa un’infanzia solitaria. Il suo essere effeminato, schivo, amante di poesia e topo di biblioteca gli fa guadagnare le attenzioni non richieste di tutti i bulli della scuola. Nel frattempo la nonna, alla quale era stato affidato, muore; Benjamin è costretto a tornare a vivere coi genitori e i cinque fratelli. I primi, per sua stessa dichiarazione, sono stati “cattivi genitori“; i secondi hanno avuto almeno il merito di non saper suonare e di lasciare che fosse Benjamin ad utilizzare la loro tastiera di seconda mano. Fallisce poi negli studi di giurisprudenza e, a causa di un litigio con il suo coinquilino, lascia Londra alla volta di Parigi. Entra a far parte della nutrita corte di clochard e busker ed inizia ad esibirsi in Metrò. Qui viene notato e scritturato. Una biografia così tenera e straziante che nemmeno un cartoon giapponese drammatico degli anni 80.

È con queste premesse che Clementine è approdato in Italia per due date. Alla data felsinea, organizzata dal Covo Club all’interno del più importante e centralissimo teatro della città, il pubblico è eterogeneo; istituzioni, dreadlocks, famiglie e studenti si ritrovano a condividere, per una sera, lo stesso spazio. Quando Benjamin si presenta sul palco, nel suo classico outfit da scena – piedi nudi, pantaloni stretti e morbidi e un lungo trench di lana grigia a coprirgli il torso nudo – la platea è gremita e impaziente. Le note di Gone non si fanno attendere e Clementine avvolge il teatro di reminiscenza melanconica. Sul palco solo lui e il grande piano a coda; lo suona seduto su di un alto sgabello. Segue la melopea narcotica di Condolence; la voce canta le condoglianze per lo sfiancante e ciclico déjà vu di vita e morte. Sono gli infiniti colori della voce di Clementine a svettare sul minimalismo dell’esecuzione. Con The People and I entra in scena il violoncello, ad accompagnare anche le splendide London e Adios.

Clementine si mette a nudo; prende l’amaro della sua vita, l’adagia sulle note e lo scaglia lontano. Una catarsi a mezza via tra opera rock, componimento classico e rito vudù. Il parossistico picchiare sui tasti nell’intro di Adios, la maschera teatrale, il trasporto emotivo ai limiti della trance, ma anche la timbrica pastosa e spessa rimandano al soul e allo shock rock di Screamin’ Jay Hawkins. Ma tra un brano e l’altro Clementine è anestetizzato, le sue parole sono sussurri timidi e strascicati; ogni volta vien da chiedersi se riuscirà a finire la frase. Dopo Cornerstone, il singolo che l’ha portato al successo, Clementine si rifugia dietro le quinte. Buona parte della platea è in piedi. Eccolo allora tornare in scena. Alcuni la riconoscono dalle prime note: è Caruso di Lucio Dalla. L’esecuzione è disastrosa: dimentica le parole più e più volte, si scusa, ricomincia, fallisce di nuovo. Il pubblico, inaspettatamente, apprezza il coraggio; ride e, nonostante tutto, lo incita. Bellissima, ipnotica e dolce – al contrario – la cover di River Man di Nick Drake. Un concerto toccante. Va detto tuttavia che, dato anche il suo grezzo approccio al piano, abbiamo avvertito la mancanza di altri strumenti. Ma Clementine ha solo ventisei anni, avrà modo di affinare la tecnica e di presentarsi sul palco con line-up ricche, capaci di far risaltare tutta la sua profondità compositiva ed espressiva. L’unico problema, per allora, sarà riuscire a trovare i biglietti.

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