Secondo i dati del censimento del 2011, il 37% degli otto milioni di persone che vivono a Londra è nato fuori dal Regno Unito. Tre milioni di persone, 160 Paesi, 270 lingue. Il 52% sono donne, il 47% ha tra i 20 e i 39 anni e 46% ha scelto di prendere la cittadinanza britannica. L’incremento del 14% della popolazione totale della città tra il 2001 e il 2011 (circa un milione di persone in più ) è dovuto principalmente agli emigrati.
La storia dell’immigrazione a Londra è lunga e complessa. E c’è un fazzoletto di terra a Londra che è un osservatorio perfetto per capire le sfumature dell’immigrazione nella capitale Britannica. E’ dal quartiere intorno alla stazione di Liverpool Street che passano le storie di migrazione della città. Qui vivono i rifugiati, in cerca di asilo da guerre e altri disastri. Qui lavorano gli “expat”, le élite nomadi, straniere ovunque ma di casa dappertutto. E di qui passa la nuova migrazione europea, che a volte arriva con più lauree che valigie, e spesso con un carico di aspettative e senso d’avventura.
Partiamo dal rione di Spitalfields, a destra della stazione. Basta attraversare il largo viale di Bishopsgate per entrare in un microcosmo che è sempre stato primo approdo per diaspore in transito. Un dedalo di architetture meticce e in costante evoluzione, costruito dalle comunità che passando di qui hanno lasciato qualcosa al quartiere.
I primi sono stati gli esiliati Ugonotti alla fine del 1600, che hanno lasciato le case di mattoni grigi e l’arte della tessitura della seta. Alla fine del ‘700 i francesi si spostavano in quartieri più alla moda e a metà ‘800 arrivavano gli irlandesi, in fuga dalla carestia. Sono loro ad aver costruito i primi Docks che costeggiano il Tamigi nell’est della citta. Nell’Ottocento a Spitalfields sono arrivati gli ebrei dell’Europa dell’est e quelli olandesi. Hanno costruito oltre 40 sinagoghe e consolidato il primo nucleo del distretto economico di Londra.
Nel Novecento sono arrivati pachistani e poi, Brick Lane, si è popolata di bangladesi tanto che ancora oggi oltre il 60% della popolazione del distretto ha origine bangladese. Hanno rianimato i mercati del quartiere, portato stoffe e spezie e aperto le curry house, salvezza e consolazione dei pendolari britannici. Negli anni ‘80 è stata la volta dei somali e dei tamil, ora iniziano ad arrivare piccoli gruppi dal Nord Africa.
Ogni nuovo arrivo cambia quasi istantaneamente il tessuto urbano e sociale di un quartiere che ha conosciuto tensioni ma che ha imparato, in qualche modo, ad accettare tutti.
A sinistra della stazione di Liverpool Street invece c’è Exchange Square, e da lì inizia il distretto finanziario ed economico di Londra: banche d’investimento, grandi studi legali, quartier generali di multinazionali. Grattacieli avveniristici stanno sostituendo palazzoni brutalisti e gli expat, nuovi nomadi globali sono una fiumana che va sempre di corsa, vociante di gergo incomprensibile ai non addetti ai lavori e declinato in una miriade di accenti.
Sono gli avvocati d’impresa, i direttori marketing e i banchieri arrivati da tutto il mondo. Sono quelli che hanno avuto successo – per chiaro talento o per nascita fortunata o per determinazione immane, in combinazioni varie. Sono all’apice di quel 11.8% di emigrati a Londra che lavora in una posizione manageriale. Hanno 3 passaporti in tasca e parlano 5 lingue e a Londra hanno amici di tutto il mondo ma raramente incontrano britannici. Sono gli emigrati che hanno meno nostalgia di casa e vivono la città come un grande parco giochi – work hard, play hard – perché tanto sono di passaggio. Saranno presto attirati da un competitor a Pechino o a New York a furia di B&B, bonus e benefits. E il loro stile di vita cambierà pochissimo perché le comunità expat si assomigliano tutte, a Dubai, come a Mosca.
Il terzo gruppo è quello che sta nel mezzo. Sono tutti gli altri e sono la maggior parte di quei 44mila giovani italiani arrivati nel 2014. E’ la nuova migrazione europea che viene a Londra a studiare, inseguire ambizioni e a reinventarsi e che ha contribuito per oltre 20 miliardi di sterline all’economia britannica tra il 2000 e il 2011.
Arrivano in un flusso costante e sempre più evidente, col treno diretto dall’aeroporto o con gli autobus consorziati con le compagnie aeree low cost, che si fermano proprio su Bishopsgate.
Hanno progetti e idee o semplicemente cercano un’alternativa all’immobilismo che hanno visto, in sfumature diverse, nei loro Paesi d’origine. Sono i ricercatori e gli infermieri, gli idraulici e i designer. Qualcuno creerà start up di successo, qualcun altro conoscerà solitudine e lavori senza sbocco. Le loro storie sono quelle che leggiamo spesso sui giornali italiani e che adesso Movement Against Xenophobia racconta ai Londinesi. Da qualche settimana infatti la città ha iniziato ad animarsi dei volti e delle storie delle nuove migrazioni. “I Am an Immigrant” rivendicano orgogliosamente musicisti, giornaliste, vigili del fuoco e farmaciste dai poster alle fermate della metropolitana e per le strade. Perché anche nel caos creativo e cosmopolita di Londra ci sono incomprensioni da chiarire, e pregiudizi da sfatare e, a volte, xenofobia da combattere.
Negli ultimi 15 anni il quartiere intorno alla stazione di Liverpool Street è stato protagonista di uno dei più intensi e radicali programmi di rigenerazione urbana, promossa dal comune e finanziata in buona parte da investitori privati. I critici vedono il risultato come bieca gentrificazione che sta snaturando il distretto e costringendo i residenti a spostarsi in zone meno “trendy”. I promotori parlano di modernizzazione e di sviluppo economico locale a beneficio di tutti quelli che nel quartiere vivono, lavorano e investono.
E in effetti, la linea divisoria di Bishopgate sta diventando un confine sempre più poroso. Alla stazione di Liverpool Street si incrociano ogni mattina il banchiere cresciuto a Banglatown ma pendolare da Kensington, e la dottoressa irlandese che ha ristrutturato con cura una delle case costruite dagli Ugonotti. E per strada ci sono gli sviluppatori di software italiani, gli architetti ungheresi, i cuochi greci che magari condividono un appartamento a Brick Lane. Qualcuno di loro diventerà expat sempre in transito, altri vorranno tornare a casa appena possibile. Tanti forse metteranno radici e costruiranno qualcosa da lasciare in regalo alla città, che non li ha respinti.