Intanto c’è una mancanza, un deficit, uno spostamento, un’elisione. Cade la erre e torna l’essenza, spolpata la carogna dai vermi buonisti favolistici, corroso il cadavere del mieloso volemosebbene. Nessuno vivrà felice e contento. Non ora, non qui, soleva dire Erri De Luca prima degli scontri della Tav. Qui rimane un volemose, senza il bene. Il Cappuccetto non è più rosso, passione e sangue e crescita ed età adulta dopo il passaggio mestruale nella fitta boscaglia di sterpi e aculei e spine, ma è tornato ad essere soltanto Osso, ossimorico connubio tra la dolcezza del primo sostantivo e la durezza ancestrale cannibale del secondo. “Cappuccetto Osso” vede i Gogmagog, gruppo storico scandiccese attivo dal ’98, che particolarmente ama il sangue ed i suoi derivati, in tutte le sue forme narranti, dialoganti, drammaturgiche, dialettiche.
‘Cappuccetto Osso‘, scritto dall’artista Marcella Vanzo, dopo la collaborazione nel simbolico ‘Quei 2‘, riesumazione catartica di Adamo ed Eva, è il ritratto di un amore complicato, difficile, pericoloso. Lupo e Bambina, brutale e dolce, animalesco e candido, denti digrignanti e gote paffutelle, Orco e piccola dal sapore pedofilo lolitesco. Curiosità; in un passaggio vengono tirati in ballo ‘elementi renziani’, non sappiamo in maniera quanto volontaria: a casa della nonna si dice di aprire la Madia (Marianna, ministro per la Pubblica Amministrazione) mentre più volte sono citati i Boschi (Maria Elena, ministro per le Riforme Costituzionali). Ma forse vediamo il mostro anche dove non c’è.
Una bimba non così ingenua che ci racconta dei giochi hot in dark room ai tempi delle feste delle medie (quella di Tapparella di Elio e le Storie Tese, per intenderci) fatti di inginocchiamenti e di soddisfazione maschile con la vergogna celata dall’oscurità prima del consueto e conclusivo ballo del mattone sentimentale. Un lupo (Carlo Salvador non così crudele) che sotto la veste d’ordinanza di pelo e denti famelici appuntiti, non fa paura a nessuno ed è intristito nell’imitazione di Robert De Niro in Taxi Driver (“Dici a me? Ehi, ma dici a me?” però ci è stato risparmiato), con cresta punk e giacca militare, un lupo che diventa ben presto cane docile (cita Lessie e poi canta la Furia di Mal) raggomitolato contro le sentenze della piccola che tanto succube e masochista proprio non sembra. Anzi ha decisione e una pistola, che non guasta mai: “Se in un romanzo compare una pistola, bisogna che spari”, mitragliava Cechov.
Il girl power e la rivalsa femminista si fanno pian piano strada: Cappuccetto è consapevole di se stessa e della propria bellezza interiore, si rispetta, si vuole bene, a differenza del lupo che cerca di sbranare gli altri perché non è riuscito a conoscersi, a perdonarsi, a salvarsi. Nel bosco il più sperso è la bestia non la fine cacciatrice travestita da donzella: il bruto alla fine è un’ingenua vittima, in primis di se stesso, tra abuso di farmaci ed alcool, mentre la ragazzina, in candidi abiti attillati e topless finale, con lo stereotipo opposto alla favola dei buoni sentimenti, ha una madre eroinomane ed un padre in carcere. Di fiabesco è rimasto ben poco, anche se nell’intercapedine tra il grottesco dai colori sovraesposti ed il messaggio di fondo della donna che può e deve ribellarsi alle prevaricazioni e alle umiliazioni machiste, si aprono delle crepe di stallo, drammaturgico e di messinscena, che fanno cedere qua e là la struttura facendone un affresco semplicistico che non spinge sul paradosso e sull’iperbole ma si ferma nell’atrio del non sense, nell’anticamera del “vorrei ma non posso”. Gli ingredienti ed i guizzi, soprattutto iniziali, c’erano tutti per creare un ottimo pasticcio di carne e sogni avariati, ma i caratteri, che avevano preso una piega psicologica densa, ridicola e feroce, vengono lasciati sospesi, senza pungere se non per qualche risata che non scalda.
Visto al Teatro Studio di Scandicci (Firenze) il 28 aprile 2015