Dopo un anno e mezzo dall’approvazione della legge sul femminicidio abbiamo finalmente il Piano antiviolenza. Frutto di un lavoro lunghissimo che ha coinvolto vari Ministeri, dagli Interni, alla Salute, all’Istruzione, e che accoglie nella sua impostazione le linee guida della Convenzione di Istanbul. Un piano senza dubbio condivisibile nelle premesse, con alcune felici intuizioni come la formazione e la sensibilizzazione degli insegnanti, ma che sul fronte delle azioni suscita alcune perplessità, che avanziamo nella speranza che sia accolte come contributo al suo miglioramento.
Prima fra tutte il pieno mancato coinvolgimento, sia nella fase della predisposizione del Piano, sia nel ruolo che esse possono svolgere nella sua implementazione, delle associazioni femminili che da anni si occupano della violenza sulle donne e che da sempre sono l’interlocutore privilegiato di chi della violenza è vittima. Aver lasciato fuori dalla stesura del Piano associazioni come D.i.Re, l’Ass. naz. Telefono Rosa Onlus, Udi, fondazione Pangea, Maschile Plurale, Cam, che più di ogni altro hanno il polso della situazione e che in questi anni hanno supplito, con scarsi mezzi e tanto volontariato, al vuoto legislativo, è stato un vero e proprio errore. Senza il loro intervento, la loro esperienza e collaborazione temiamo che le azioni del Piano porteranno risultati molto inferiori a quelli necessari ed auspicabili.
La seconda perplessità riguarda la raccolta dei dati, a cui il piano dedica ben cinque pagine, che è fondamentale per fronteggiare il fenomeno. Certamente bisogna costruire un sistema integrato di raccolta nel quale far confluire i flussi di informazioni dalle fonti più diverse. Ma la gestione dei flussi è la parte che richiede una competenza che non può essere improvvisata con comitati, gruppi di esperti etc.
La validazione dei dati è sempre un processo delicatissimo, ma lo è ancor più in questo campo.
Per questo sarebbe meglio che questa parte del piano sia affidata all’Istat per competenza, per risparmio di spesa (i due milioni di euro previsti ci sembrano troppi), e anche per dare alle statistiche relative alla violenza la stessa ufficialità e quindi pari dignità di quelle sul lavoro, sulla povertà, sui dati economici, che sono entrate nelle “consuetudini e attese nazionali”.
Una terza perplessità è sulla presenza di troppi “enti e agenti” in campo, pur condividendo che la governance deve essere a molti livelli. L’esperienza dimostra che strumenti ed enti snelli e agili, funzionano meglio e invece ci troviamo di fronte a soggetti istituzionali con competenze spesso sovrapposte, sui quali manca un coordinamento, che necessariamente non potrà essere del Ministero dell’Interno, come sembrerebbe suggerire l’importanza data dal Piano ai Prefetti. Lo abbiamo detto più volte, ma mai come in questo caso è necessario avere una Ministra delle Pari Opportunità che svolga una regia organica e monitori costantemente l’applicazione del Piano.
L’ultima perplessità riguarda i fondi stanziati: 10 milioni di euro l’anno sono veramente troppo pochi e temiamo che vengano dispersi in troppi rivoli, lasciando ai centri antiviolenza, il cui ruolo sembra essere depotenziato, solo le briciole.
Le vittime della violenza non vanno solo protette e difese punendo il loro aguzzini, ma ascoltate, accolte e accompagnate nei percorsi di empowerment e questo è un ruolo che solo i Centri svolgono e possono svolgere.
Il Piano è un buono strumento di partenza, ma sul quale c’è ancora molto da lavorare e da correggere.