L’Italia esce dal trattato sulla Carta europea dell’energia. L’obiettivo, sostiene il governo, è ottenere un risparmio di 450mila euro l’anno, bene che vada. A fronte del quale si generano però profonde incertezze sulle tutele future degli investitori stranieri nel nostro Paese, proprio mentre si tenta di attirarli assicurando loro una maggiore “stabilità” delle norme fiscali. La scelta, nascosta nelle pieghe della legge di Stabilità, rischia di gettare un’ulteriore ombra sull’immagine dell’Italia all’estero. Anche perché, visto che il gioco non vale la candela, il sospetto è che dietro ci sia dell’altro.
Il trattato, a cui aderiscono 53 Paesi, è stato siglato nel 1994 sulla base della precedente Carta redatta alla fine della Guerra fredda per superare le divisioni economiche. Con il tempo è diventato un punto di riferimento per il settore dell’energia: tra le altre cose, definisce infatti norme e principi comuni con l’obiettivo di dare certezze giuridiche agli investimenti stranieri. Norme e principi a cui si può appellare chiunque faccia parte di uno degli Stati aderenti.
Esemplare è il caso dei recenti ricorsi degli operatori del fotovoltaico contro il decreto spalma incentivi varato dal governo Renzi. Prima dell’estate un centinaio di investitori stranieri in impianti solari hanno infatti avviato la procedura di arbitrato internazionale contro il provvedimento, basandosi proprio sui principi del Trattato. Secondo gli operatori, lo spalma-incentivi violerebbe, infatti, l’articolo 10 che contiene il principio del “giusto ed equo trattamento e tutela gli investitori da repentini e inattesi cambiamenti delle condizioni sulla base delle quali gli investimenti sono stati effettuati”, e l’articolo 13, che mira a proteggere gli investitori da un’espropriazione da parte di uno degli Stati contraenti.
Il recesso dal Trattato, decisione del tutto inedita (nessun altro Paese aderente lo aveva mai fatto), non dovrebbe avere effetti sulla vicenda. Le norme continuano infatti a valere per 20 anni per tutti gli investimenti effettuati in passato. Ma per il futuro, a partire dal gennaio 2016 quando l’uscita sarà effettiva, le domande sono molte. Gli investitori, non solo quelli nel fotovoltaico, a chi si potranno appellare per contestare qualsiasi nuovo provvedimento e far valere le proprie ragioni? L’attrattività della Penisola ne risentirà? Assisteremo a un fuggi fuggi degli imprenditori stranieri proprio mentre, come ribadito giovedì dal viceministro dell’Economia Luigi Casero, il governo afferma di voler creare un sistema fiscale ”attrattivo per le imprese straniere” che investono in Italia?
“L’uscita dal trattato non incide retroattivamente sugli investimenti già effettuati. Tuttavia avrà effetto su quelli futuri e questo crea un problema di immagine del nostro Paese”, spiega a ilfattoquotidiano.it Germana Cassar, socia dello studio legale Macchi di Cellere Gangemi, che segue alcune delle aziende straniere che hanno fatto ricorso. “L’investitore ragiona sia in termini di remunerazione che di rischio. Già ora non siamo visti come un Paese molto affidabile e questa decisione è un ulteriore elemento che verrà valutato attentamente dagli investitori stranieri. Prima lo spalma-incentivi, poi l’uscita dal trattato: mi pare che il messaggio sia chiaro”.
Messaggio che sembra invitare ad andare altrove, negli Stati dove le tutele del Trattato sono ancora in vigore. Per esempio la violazione della Carta dell’Energia è oggi lo strumento legale più utilizzato dalle aziende straniere in Spagna per ottenere risarcimenti in seguito a cambiamenti retroattivi dei sistemi incentivanti per le fonti rinnovabili. Il Paese, secondo i dati sulle cause pendenti della segreteria della Carta, ha ben 13 cause pendenti. Seguono la Repubblica ceca, con sette cause, la Turchia e il Kazakhstan, con 5 procedimenti a testa.