Lo abbiamo atteso a lungo un piano nazionale contro la violenza alle donne, lo abbiamo sollecitato per oltre un anno. Nel dicembre del 2014, abbiamo accolto con scoramento l’annuncio delle consultazioni online: un’operazione demagogica e di “marketing” a vantaggio del governo Renzi che l’ha spacciata per democrazia tra i suoi elettori  e le sue elettrici per  convocare nei mesi seguenti, le associazioni che si occupano di violenza contro le donne  ma solo per  sottoporre alla loro attenzione la bozza del Piano e chiedere il gentile consenso. Ieri  Udi, D.i.Re, Telefono Rosa, Fondazione Pangea e Maschile Plurale hanno bocciato il Piano e in comunicato stampa e criticato il governo per aver “perso l’occasione storica di combattere con  azioni specifiche, coordinate e efficaci la violenza maschile contro le donne  attraverso un Piano che affronti le esigenze tassative poste dalla Convenzione di Istanbul per proteggere, prevenire e combattere la violenza maschile”. Oggi Giovanna Martelli ne ha presentato pubblicamente il testo contraddittorio e incongruente persino nella parte che affronta il problema della discriminazione del linguaggio perché non c’è la declinazione al femminile quando si parla di donne.

Fra la premessa e gli obiettivi condivisibili e la descrizione delle azioni da intraprendere esiste un gap fatto di percorsi delle donne fortemente istituzionalizzati, accentramento nelle mani del governo delle azioni politiche da svolgere per contrastare la violenza contro le donne, neutralizzazione delle specificità dei centri antiviolenza omologati a qualunque altro servizio e ridotti al ruolo “tecnico”. I finanziamenti sono esigui per i progetti di accoglienza e sostegno per le donne vittime di violenza e ci sono grandi dubbi sulla effettiva operatività per la parte che riguarda la conduzione delle azioni da intraprendere. Il Piano delinea un sistema di governance caotico e pone rilevanti problemi giuridici a livello locale col rischio che nelle città metropolitane e nelle Province si convochino più tavoli con gli stessi soggetti istituzionali causando una sovrapposizione di reti. L’impostazione è complessivamente di tipo sanitario-securitario con le donne viste come soggetti da “prendere in carico” (si donne questo è il linguaggio del Piano) in palese contraddizione con le premesse che parlano della necessità di empowerment. Il governo non si è ancora reso conto che non è sufficiente che una donna si rivolga al pronto soccorso o sporga denuncia per uscire dalla violenza e tantomeno che trovi un  lavoro. C’è bisogno di luoghi che accolgano le donne e le accompagnino nel difficile percorso di uscita dalla violenza partendo dalla rafforzamento della loro autodeterminazione e delle loro scelte. Ma nello scorrere le pagine pare di avvitare una vite spanata che non fisserà mai nulla.

Eppoi c’è il tasto dolente che riguarda l’istituzione della Banca dati. Il governo non ha nemmeno preso in considerazione il lavoro che era stato svolto sui tavoli  della Task Force nell’autunno nel 2013. Allora era stata prevista la realizzazione di un protocollo di intesa con l’Istat che avrebbe svolto in sinergia con i centri antiviolenza, l’importante e delicato ruolo  di regia per la raccolta dati dai diversi soggetti che incontrano donne che subiscono violenza. Nulla di fatto! I dati saranno raccolti dai centri antiviolenza e da altri soggetti con il rischio di sovrapposizioni. Il Piano ammette che le fonti di carattere istituzionale non sono sempre idonee a cogliere il fenomeno nella sua completezza, parla di i gap informativi e di insufficienza della modulistica ecc. ma intanto rende marginale il ruolo dell’Istat e con l’auspicio di passare (prima o poi) dall’attuale situazione di accumulo di dati derivanti da più fonti ad uno strumento conoscitivo contestualizzato  procederà alla raccolta di questo “flusso” di dati che sarà appaltato a privati (o yes all’appalto!). La previsione di spesa? Duemilioni di euro mentre la ricerca dell’Istat sulla violenza contro le donne era costata 400mila euro. Con questa decisione – ha commentato  Titti Carrano, presidente D.i.Re – viene meno il progetto di rendere obbligatoria e continua una ricerca sulla violenza di genere e senza una descrizione quantitativa e qualitativa del fenomeno non è pensabile, né verificabile, alcuna politica di prevenzione e di contrasto”.

Con un parlamento che non ha mai visto una percentuale di deputate e forse pure di ministre così alta nella storia del nostro Paese, stiamo per avere un deja vu,  perché il governo  farà con la violenza contro le donne ciò che venne fatto con i consultori, quei luoghi che erano stati importanti per la salute e i percorsi di autodeterminazione delle donne, assorbiti masticati e digeriti e che oggi sono solo una bella storia del passato.

L’obiettivo dei centri antiviolenza oggi è resistere!

Twitter: @Nadiesdaa

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