Esponenti dei servizi segreti visitavano continuamente i penitenziari per entrare in contatto con i boss mafiosi detenuti in regime di 41 bis. Lo ha raccontato Vito Galatolo, il picciotto dell’Acquasanta che dal novembre scorso ha deciso di diventare un collaboratore di giustizia. Per la prima volta, il pentito ha infatti deposto al processo sulla Trattativa Stato mafia, collegato in video conferenza con il bunker del carcere Ucciardone di Palermo: in aula ad ascoltare la deposizione c’era il pm Nino Di Matteo (nella foto), il magistrato che, secondo lo stesso Galatolo, Cosa Nostra ha deciso di assassinare nel dicembre del 2012. Il picciotto dell’Acquasanta, però, non ha raccontato solo i dettagli del piano di morte per Di Matteo. “Quando ero detenuto nel carcere di Parma – ha spiegato Galatolo – altri mafiosi detenuti mi raccontavano di continue visite di 007: queste confidenze mi vennero fatte da Cristoforo Cannella, Francesco Giuliano ed Enzo Aiello, mentre uno che con i servizi ci parlava spesso era Nino Cinà”.
Il nome di Cristoforo “Fifetto” Cannella è uno di quelli contenuti nel cosiddetto Protocollo Farfalla, ovvero l’elenco di boss mafiosi detenuti che secondo l’intelligence erano pronti a diventare confidenti in cambio di somme di denaro. “Il catanese Aiello – ha proseguito il pentito – invece mi ha raccontato che i Servizi gli offrirono soldi per scagionare Raffaele Lombardo”, e cioè l’ex governatore della Sicilia condannato in primo grado a sei anni e otto mesi per concorso esterno a Cosa Nostra il 19 febbraio 2014.
Galatolo ha cominciato la sua deposizione davanti alla corte d’Assise di Palermo raccontando i particolari dell’attentato studiato da Cosa Nostra per assassinare Di Matteo: un’esecuzione ordinata da una lettera di Matteo Messina Denaro (che i padrini chiamano tra loro come “il fratellone”), arrivata al boss di San Lorenzo Girolamo Biondino, che nel dicembre del 2012 informa il gotha mafioso di Palermo della richiesta della primula rossa Castelvetrano. “Per l’attentato servivano cinquecentomila euro che Messina Denaro non poteva fornire: io contribuì con 360mila euro, mentre il boss di Palermo centro Alessandro D’Ambrogio e Girolamo Biondino con 70 mila euro a testa: il tritolo arrivava dai calabresi, erano duecento chili, ma cento erano danneggiati dalla salsedine e vennero rispediti indietro”. Secondo Galatolo a volere quell’esecuzione non sarebbe stato solo Messina Denaro. “Quando siamo venuti a sapere che l’artificiere da utilizzare nell’attentato al pm Di Matteo non era di Cosa Nostra, ma era esterno, a quel punto abbiamo capito che dietro al piano c’erano soggetti estranei alla mafia, apparati dello Stato, e che eravamo coperti, come nelle stragi del 1992”.
In prima battuta i boss pensano di assassinare il magistrato piazzando un furgone davanti al Palazzo di giustizia, idea poi abbandonata perché non riuscirono a trovare i locali da utilizzare come appoggio logistico nei dintorni del tribunale. “A quel punto – ha proseguito il pentito – abbiamo contattato Salvatore Cucuzza (e cioè un collaboratore di giustizia che gestiva un ristorante a Roma, oggi deceduto ndr): lui doveva contattare Di Matteo, invitarlo al suo ristorante, dirgli che aveva rivelazioni sulla Trattativa. Noi saremmo stati lì per assassinarlo con i kalashnikov”.
Anche quel piano B però non andrà in porto. Il motivo? “Tra il novembre del 2013 e il gennaio del 2014 arrestarono me, Alessandro D’Ambrogio, Girolamo Biondino e Vincenzo Graziano: l’ordine però non è mai stato ritirato” ha chiarito il collaboratore. Galatolo appartiene ad una famiglia molto importante nella storia di Cosa Nostra: da fondo Pipitone, la loro residenza nel cuore dell’Acquasanta, sono partiti i commando di morte per Pio La Torre, Rocco Chinnici, Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ed è per questo che ad un certo punto Galatolo riavvolge indietro il nastro del racconto. “A fondo Pipitone c’era un via vai di uomini delle istituzioni: veniva l’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera, che secondo mio padre era a libro paga dei Madonia. Veniva Bruno Contrada, ed anche un uomo con i capelli biondicci, con una faccia deturpata, che all’epoca a noi bambini faceva molta paura”. Quell’uomo sarebbe Faccia da mostro, l’uomo degli apparati con il tesserino dei servizi in tasca che avrebbe affiancato i killer di Cosa Nostra nelle stragi più delicate degli anni ’80 e ’90. Da diversi mesi le procure di Catania, Reggio Calabria, Palermo e Caltanissetta sono convinti di aver rintracciato la vera identità di Faccia da mostro: si tratta di Giovanni Aiello, ex poliziotto in pensione con il volto deturpato da un colpo di fucile.