Nello stupore generale, ad ogni modo, è proprio quest’ultimo elemento a rappresentare, probabilmente, il cambiamento meno sorprendente e – allo stesso tempo – forse più decisivo. Può sembrare paradossale, è vero. Proviamo a capire perché, tenendo sempre bene a mente quali siano le caratteristiche del sistema elettorale britannico, come sfondo dell’analisi.
Sarebbe riduttivo collegare il risultato dello Scottish National Party unicamente a quella sorta di radiazione-nazionalista-di-fondo propagatasi dal referendum sull’indipendenza scozzese dello scorso anno in poi. E’ sicuramente vero che il risultato ottenuto dagli indipendentisti scozzesi nel settembre 2014, quel 45% che ha condotto alle dimissioni di Alex Salmond da leader del partito e prime minister in Scozia, abbia generato e influenzato l’andamento del voto di ieri; è anche vero, però, che i britannici hanno dato – ancora una volta – una grande dimostrazione di maturità elettorale: il referendum sull’indipendenza è una cosa, le politiche sono un’altra (così com’è stato per l’Ukip di Farage, con sorti opposte: le europee sono una cosa, le politiche un’altra.).
Mentre si potrebbe essere portati a confondere i risultati di una votazione con un’altra, come per esempio avviene costantemente in Italia, in cui il mantra del 40% del Pd alle europee 2014 viene usato troppo spesso come maglio da talk show per indicare l’investitura popolare di cui il governo e il partito sarebbero titolari, inglesi e scozzesi hanno dato dimostrazione di prendere le elezioni per quello che sono e di sapere bene che ogni votazione corrisponde alla trattazione di temi diversi e di problematiche diverse, prima di tutto per dimensione e portata.
Con estrema modestia, mi dispiace contraddire Ed Miliband (che già ha avuto una giornataccia) quando dice che “in Scozia i Labour sono stati battuti dal nazionalismo”, ma non mi pare affatto che l’indipendentismo sia stata la causa principale della debacle laburista. La formazione di Miliband ha avuto due colpe principali, una legata alla varietà sociale dell’elettorato e una al programma: il messaggio dei Labour è stato molto meno ‘targettizzato’ di quello dell’SNP, che ha potuto fare affidamento non solo sul legame territoriale del partito con la popolazione dell’area, ma anche su una strategia politica meglio pianificata sulle istanze che la popolazione stessa sentiva più vicine a sé; conseguentemente, e arriviamo al secondo punto, il programma Labour è risultato meno dettagliato e sagomato sul votante – rispetto a quello dell’SNP – agli occhi dell’elettorato scozzese, e la zona al di là del Vallo di Adriano è diventata terra di conquista per Nicola Sturgeon, che ha così aggiunto 50 seggi ai 6 ottenuti alle ultime elezioni.
La Scozia, a eccezione di tre seggi (uno a testa tra Labour, Conservative e Lib-Dem), è dell’SNP. Non lo sarà ancora formalmente ma, di fatto, si respira una certa aria di indipendenza dalle parti di Edimburgo, almeno da un punto di vista politico-elettorale. Pochissimi elementi giocano a sfavore di una forte presenza dei MPs scozzesi a Westminster, e se Cameron vorrà davvero governare per “una nazione, un Regno Unito”, il percorso verso un federalismo più completo e una maggiore devolution sembra quasi un passaggio obbligato all’orizzonte.
Più indipendenza, soprattutto in termini di gestione delle tasse e del sistema di welfare, per tenere unito il Regno. Qualcosa si era già mosso a seguito del referendum, con la nomina della Commissione Smith, ma il riconfermato inquilino del 10 di Downing Street dovrà stare molto attento: i Labour avranno anche perso, ma l’SNP è stato travolgente. E su austerity, Europa, spesa pubblica, assistenza e previdenza sociale ci sarà da combattere.