Me lo hanno raccontato in tante, ciascuna a partire dalla propria esperienza, da sempre negata, da quelle che chiamiamo femministe abolizioniste. Qualcuna dice che ci vuole talento e non tutte ce l’hanno, altre ribadiscono che hanno scelto, liberamente, o l’hanno fatto per soldi ma consapevolmente, come se avessero accettato un incarico più remunerativo rispetto al ruolo mal pagato di commessa.
Altre sono scese in dettaglio e mi hanno raccontato alcuni aneddoti anche piuttosto divertenti, perché sono loro, prima di tutto, a essere divertite. I clienti? Non sono affatto come li si dipinge. Il numero di violenze possibili è lo stesso che per qualunque altra donna che vive in casa, in famiglia. Il fatto è che per tanto tempo hanno dovuto restare in silenzio mentre veniva diffusa una descrizione quasi drammatica di quel che fanno, perché è questo l’unico modo che la società conosce per parlarne ed accettarle.
Il sex work, il lavoro sessuale, is work, è un lavoro, come lo è qualunque altro lavoro in cui una persona elargisce servizi che hanno a che fare con la cura delle persone. Che c’è di diverso tra una prostituta e una badante? Eppure della badante nessuno si occupa, per quanto in tante siano costrette in schiavitù. Perché quello è un ruolo di cui si servono le donne borghesi per emanciparsi dalle proprie responsabilità. Ci sono tante donne spezzate, che hanno lasciato affetti, figli, famiglie altrove per venire a lavorare. Di quella tratta legalizzata nessuno si preoccupa. E non ditemi che hanno scelto tutte “liberamente” perché se avessero potuto sono convinta che sarebbero rimaste con le proprie famiglie.
Poi c’è quel patto di amorevole conforto morale, che sta scritto nel codice quando si parla di matrimonio, perché il contratto prevede anche questo. Assistenza morale e questa assistenza potrebbe anche essere intesa come obbligo a fare sesso con il proprio marito, o con la propria moglie. Di fatto la moglie è per contratto una puttana in esclusiva e già dirlo fa indignare il mondo perché la moglie non si tocca e di lei si può parlare solo come una santa. Di quel residuo di struttura patriarcale che è il matrimonio, a volte scelto da donne che non sanno come campare, nessuno parla. Tant’è che per salvare alcune donne dalle violenza non si parla di reddito e casa, di strumenti che le rendano economicamente indipendenti. Si parla solo di repressione, che poco serve in funzione dell’autonomia di quella donna.
La prostituta non è una perversa creatura della notte e non è neppure una vittima, non lo è sempre, utile a chi dice di volerla salvare e la usa per alimentare l’idea della necessità di una industria del salvataggio che ha costi onerosi e mai vengono devoluti alle prostitute stesse.
La prima volta che parlai con una prostituta, fu in una via frequentata da nigeriane. Era simpatica e sicuramente aveva un pappone. Mi disse che l’alternativa era un tal posto in cui le avrebbero fatto fare la cameriera per dieci ore a un prezzo bassissimo. In quello stesso “ristorante” lavoravano altre nigeriane, “salvate” per essere sfruttate ancora.
Poi ci fu la volta in cui fu nota quella storia della vittima di tratta finita in mano ad una specie di prete che fu poi accusato di qualcosa. Le ragazze facevano pulizie e altri mestieri obbligati che garantivano un’esemplare redenzione ed espiazione. In seguito ho ascoltato i racconti di persone che normalmente non scendono in piazza, non si svelano, perché lo stigma è forte. Alcune sono immigrate con difficoltà a restare, altre conducono una doppia vita, perciò tengono alla propria privacy, e sono impiegate, studentesse, madri di famiglia, mogli, disoccupate, già occupate, che per arrotondare o guadagnare, vendono servizi sessuali. C’è chi li vende online, si mostra attraverso una webcam. C’è chi fa video o foto porno. C’è chi si prostituisce a ore. Chi lo fa di giorno, di pomeriggio, a volte di mattina, oppure la sera, o la notte. L’orario di lavoro, in effetti, è molto flessibile perché non devono timbrare il cartellino.
Ci sono quelle che migrano in Svizzera, perché lì possono lavorare legalmente ed essere trattate da lavoratrici. Perché è questo quello che vogliono. Essere trattate come lavoratrici alle quali vanno riconosciuti i diritti che sono garantiti a qualunque lavoratore.
Care abolizioniste, queste persone vogliono pagare le tasse, e già le pagano in effetti, ma proprio per questo esigono una pensione, la possibilità di aprire una partita Iva, di fare impresa e lavorare autonomamente con maggiori garanzie di sicurezza, perché più lavorano alla luce del sole e meno rischi corrono. Non vogliono la riapertura delle case chiuse e a chiunque parli in loro nome per farsi campagna elettorale hanno più volte rivolto l’invito a consultarle. Perché è questo che accomuna molte persone, di destra e sinistra: la presunzione di sapere quel che è meglio per loro. E questa, dalle mie parti, si chiama sovradeterminazione. Altro che femminismo.