“Quello che è successo a Milano durante il corteo No Expo è stato solo sport rivoluzionario. Qualcuno si è fatto i muscoli, ma in queste occasioni gli anarchici dovrebbero conoscere meglio il territorio per colpire i nervi lasciati scoperti dal potere”. Un’analisi autorevole, perché a offrirla è Alfredo Maria Bonanno, uno dei maggiori teorici dell’anarco-insurrezionalismo, area ideologica a cui appartengono storicamente molti dei cosiddetti black bloc. Siamo a Torino, via Alessandria 12. Palazzoni e negozi etnici. Quartiere popolare. Il Dora a un centinaio di metri. Linea di confine. Di là, piazza Castello, piazza San Carlo, le vie del centro. Bar e ristoranti pieni di gente all’ora dell’aperitivo. Su quest’altra sponda, un edificio con la facciata affrescata da murales. Una volta era una scuola per l’infanzia. Adesso è il centro sociale Asilo Occupato. Realtà tra le più vivaci e radicali nella galassia dell’antagonismo piemontese. “Spazio liberato” frequentato da molti anarchici duri. Laboratorio di idee e pratiche affinate in Val di Susa contro la Tav o nelle periferie torinesi contro gli sfratti.
L’appuntamento è alle 21. Un centinaio di persone. Tanti ragazzi, in maggior parte studenti universitari. Ma anche molti cinquantenni. Si parla di “Lotte intermedie e insurrezione: i nuclei autonomi di base”. L’ospite d’eccezione è lui: un signore di 78 anni, distinto e pacato. Le sue discusse idee insurrezionali – oggi divulgate anche dai siti web di area – sono state messe nero su bianco in La gioia armata, libro del ’77 che gli costò una condanna a 18 mesi. Un testo datato, ma che fa ancora scuola negli ambienti più radicali.
Due lauree: una in filosofia, l’altra in economia. Ex impiegato al Banco di Sicilia. Un lavoro che abbandonò per gettarsi in mezzo a tutte le battaglie sociali che hanno scosso l’Italia negli anni più duri: la tre giorni di Bologna nel ’77, la lotta dei tranvieri di Torino a fine anni 70 e a Comiso. Oggi editore di pamphlet con Edizioni anarchismo. Barba e capelli bianchi, occhi svegli, marcato accento catanese. E’ difficile imbattersi nel suo volto. Nessuna traccia di interviste o dichiarazioni. Si sposta da Trieste, dove abita con la moglie e i figli, quando lo invitano a qualche iniziativa nei centri sociali o nei circoli anarchici sparsi nel Paese. Nel ’96 il suo nome affiora dall’indagine del Ros contro l‘Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica Insurrezionalista. Sessantotto imputati: undici condanne. Tra cui quella a Bonanno: sei anni in Appello. Nel 2009 viene arrestato a Trikala, in Grecia: concorso in rapina insieme all’anarchico greco Christos Stratigopulos. Si fa il carcere, prima di essere rilasciato nel 2010.
Prende il microfono. Il tono di voce basso si accende all’improvviso: “Molti compagni hanno i paraocchi. Pretendono che alle persone interessi la rivoluzione. Alle persone non gliene frega un cazzo della rivoluzione. Interessano i problemi della vita quotidiana. Siamo noi anarchici che dobbiamo sapere come confrontarci con loro. Siamo noi che dobbiamo essere un passo avanti nello scontro. A me non interessa dare un lavoro alla gente. A me interessa colpire e distruggere il potere”.
Il microfono passa di mano in mano tra i ragazzi. Chiedono a Bonanno in che modo gli anarchici debbano inserirsi nei terreni di scontro con lo Stato. Chiedono in che modo debbano portare avanti le lotte quotidiane. Parlano delle difficoltà, delle contraddizioni, della repressione con cui devono fare i conti. Parlano di lotta per la casa e di Tav. Fanno bilanci. Si interrogano su come proseguire quelle esperienze. Lui ascolta. Risponde, con calma. “Non ho la verità in tasca, altrimenti non sarei un anarchico. Le mie sono ipotesi. Tentativi a volte vittoriosi, a volte perdenti. A Comiso, nei primi anni Ottanta, arrivarono seicento anarchici per dire no all’installazione dei missili nella base statunitense. Perché non dovevo sognare di distruggere quella base? Perché non dovevo sognare che da Comiso scoppiasse un’insurrezione che si allargasse in tutta la Sicilia e poi in tutta Italia? Questa è la bellezza dell’anarchia. Provammo a far scendere i cittadini in strada. Giocammo anche la carta del pietismo: portammo i feriti durante gli scontri in piazza a Vittoria, paese con una grande tradizione di lotta alle spalle, sperando che i cittadini, vedendo quei ragazzi con la testa spaccata, venissero colti dalla voglia di ribellarsi. Non fu così. Ma almeno ci abbiamo provato. Anche perché dobbiamo sempre ricordare che le nostre pratiche non sono autoreferenziali, ma servono anche ai compagni di altri paesi”.
Poi una lezione: “Nella mia vita non ho mai incontrato un compagno che conoscesse la piantina di una città. Bisogna conoscere il territorio. Gli obiettivi civili e militari vulnerabili. Ma non bisogna chiamare ‘vittoria’ la morte di un poliziotto né di nessun altro. Il sangue porta solo lacrime. Noi vogliamo distruggere il potere, non le persone. Ma bisogna essere preparati. Prendete il primo maggio contro Expo, dove qualcuno si è fatto i muscoli, dandosi a semplice ‘sport rivoluzionario’. O le grandi manifestazioni ad Atene quando fu sferrato l’attacco al Parlamento, un palazzo del potere buono per farci una pisciata dentro. Noi non siamo quelli che tentano la presa del Palazzo d’Inverno, queste cose lasciamole ad altri. Noi dobbiamo saper nuotare e muoversi controcorrente. Perché quando la marea sale, le forze dell’ordine sono lì a sorvegliarla. Mentre noi possiamo attaccare i veri obiettivi che ci interessano”. Poi precisa: “Io a Milano non c’ero, non sono dentro quelle realtà, quindi non conosco le decisioni che sono state prese”.
Teoria, ragiona Bonanno. A cui i gruppi di affinità (un nucleo ristretto di persone che si accordano per mettere a segno una singola azione e poi sciogliersi) non sono ancora rodati alla perfezione. Una ragazza allora chiede come attuare al meglio questa pratica nelle città, per ferire il più possibile lo Stato. Bonanno sorride: “Stai facendo un passo troppo grosso. Ti sto dicendo che siamo a zero e tu vuoi andare di colpo a cento. Ma una cosa è utile, e te lo dice un ex galeotto a cui le pistole fanno schifo: sapere dove sono piazzate le banche è importante. Lì ci sono i soldi. E i soldi non fanno schifo se vengono utilizzati per la causa rivoluzionaria”.