L’altro giorno è uscito il nuovo album dei Mumford&Sons. E in molti, me compresa, sono rimasti un po’ delusi, perché è senz’altro un buon disco, ma non è il loro sound. Non si riconoscono quasi. E, interrogandomi sui motivi per cui avessero scelto di fare una cosa così diversa da loro, per la prima volta mi sono sentita calcolata. Ho pensato che probabilmente secondo le leggi del marketing questo sound è in grado di rivolgersi a un pubblico molto più ampio, e che quindi avranno tenuto in conto che una parte dei più affezionati si sarebbe sentita tradita e disorientata, ma che ciononostante avrebbero venduto di più. E quando ti senti calcolato, per istinto umano diventi imprevedibile, alla Jim Carrey in The Truman Show, e ti spingi fino al limite per trovare la porta che ti rimette in libertà.
Forse anche noi, siamo stati calcolati. E le forzature costanti dell’ultimo anno, le continue violenze verbali, l’indifferenza e l’irrisione verso ciascuna delle tante proposte, e le umiliazioni verso le minoranze sono state fatte per rivolgersi a un pubblico più vasto, quello del centro che abbiamo risucchiato e fagocitato, e della destra che stiamo imbarcando su tanti territori, con una disinvoltura inquietante e una voracità da indigestione. E magari si calcolava pure che dopo tanto chiasso saremmo comunque rimasti dentro, a coprire a sinistra, convinti come al solito che, anche quando non si è d’accordo, la battaglia si faccia da dentro. Beh, amici e compagni, questa convinzione mi ha guidato sin qui con l’ostinazione e la passione che sapete. Ma oggi, come Pippo, non ci credo più. E per carattere non riesco proprio a fare cose in cui non credo. Non ci credo perché per fare le battaglie da dentro bisogna almeno giocare su un campo comune, e invece qui ci hanno portato via la scacchiera e ci siam trovati a sorpresa col doppio dei pezzi neri.
In quest’anno abbiamo visto stracciare diritti dei lavoratori nel nome della libertà di licenziare e nell’illusione, culturalmente così distante dalla nostra storia, che questo aiuti a creare maggiore e migliore occupazione. Abbiamo visto scegliere con forza un modello energetico che non ha nulla di nuovo, è vecchio e superato dai tempi, frutto di un’incapacità di visione e lungimiranza su che tipo di suolo, di ambiente vogliamo lasciare a chi verrà dopo di noi. Abbiamo assistito a forzature costituzionali insopportabili, in continuità col pericoloso esautoramento del Parlamento in atto da anni (ma che prima contestavamo), e che ha avuto il suo grave culmine con la fiducia su una materia di squisita competenza parlamentare. E più giro i territori più assisto a scissioni silenziose e sofferte di tanti militanti ed elettori davanti all’ingresso nel partito di figure che abbiamo sempre combattuto, ex fascisti, ex berlusconiani, affaristi e a sentir Saviano pure di peggio. La verità è che vale la pena di lottare dentro al Partito finché c’è il partito, ma io temo che questo partito non esista già più, e si sia trasformato in un’altra cosa, molto diversa da quella cui avevamo entusiasticamente aderito e da ciò che era nato per essere, perno della sinistra moderna e di governo che vogliamo.
Me ne vado anche io, insieme a Pippo Civati. Nel suo volto visto dalla Gruber ho rivisto dopo mesi difficilissimi quell’amico e maestro che ha avuto lo straordinario merito di riavvicinare alla politica tantissimi ragazzi come me, che eran rimasti delusi e si erano allontanati. Molti dei quali, lungo quest’anno di riforme calate dall’alto e fuori da ogni programma, se ne sono andati di nuovo. Chiedevamo “un partito all’altezza della sua base”, che desse ascolto a militanti ed elettori e li coinvolgesse nelle scelte più importanti, ma in questo l’era Renzi non ha portato nulla di nuovo. Me ne vado con il dolore infinito di lasciare tanti amici e compagni di intense battaglie, ma con la speranza che un giorno ci ritroveremo. Con il tormento interiore di sapere che deluderò alcuni di coloro che mi avevano sostenuto, e che ci credono ancora. Li rispetto, abbiamo nutrito di tutte le nostre energie questa convinzione che ha alimentato l’entusiasmo e la grinta con cui abbiamo portato giorno dopo giorno il nostro contributo al Pd, ed è un travaglio anche personale quello che porta all’amara convinzione che la mutazione genetica del partito sia ormai irreversibile. Ma se la raggiungi, questa consapevolezza, per onestà intellettuale e per coerenza devi chiederti se quel che fai è abbastanza, per il Paese. O se è quanto basta per salvare la tua coscienza. Devi chiederti, cioè, se dopo un anno di trasformazioni profonde, di calci in faccia e di riforme che non condividi vuoi offrire al Paese solo il tuo dissenso, perennemente irriso e calpestato, oppure una prospettiva. Ed io scelgo la seconda.
Esco anche io dal Partito Democratico, e continuerò con coerenza e con la stessa passione a fare le battaglie di sempre, su cui mi sono impegnata anzitutto con chi ha scritto il mio nome sulla scheda. Lo faccio con un fortissimo groppo in gola pensando ai compagni che oggi fanno una scelta diversa, e ai tanti amici e colleghi che stimo, che in ottima fede si impegnano ogni giorno a tutti i livelli per dare un senso a quest’appartenenza. Lo faccio guardando in faccia la paura che fa una scelta così, sapendo che è un all-in, e che potrebbe essere la fine o un nuovo inizio. Ma lo faccio perché a volte devi fare ciò che ritieni giusto, e trovare il coraggio nelle tue convinzioni. Perché c’è un limite umano alle forzature che si possono sopportare, e il mio l’abbiamo già superato da un po’. È troppo tempo che non mi riconosco più in nulla di quello che sta facendo il governo, che vivo male la contraddizione sempre più insanabile tra il mio impegno quotidiano e quel che facciamo a livello nazionale, e che faccio fatica a rispondere ai tanti che mi chiedono cosa facciamo qui dentro.
Tanti di noi si sono messi in gioco nel momento in cui non si sentivano più rappresentati, convinti che se non ci mettiamo in prima persona a cambiare le cose, nessuno lo farà per noi. Ricordo bene quando occupammo le sedi del partito contro le larghe intese, convinti che la strada giusta fosse cambiare il Pd per cambiare il Paese. Il problema è che il Pd oggi è radicalmente cambiato, ma sono le larghe intese che stanno occupando noi. Che dettano le scelte di governo, che dettano le più impensabili delle alleanze sui territori, e portano a trasformismi di ogni tipo. Il problema non è essere una minoranza, lo eravamo anche prima. Il problema è come fare a portare avanti con coerenza le proprie battaglie sull’immigrazione, con un governo che non chiede di estendere il mandato di Triton, come fare a portare avanti le battaglie sulla legalità, con un governo che diluisce ogni norma anticorruzione, come fare a portare avanti le proprie battaglie sui diritti civili, con un ministro che chiede di cancellarli dai registri, e come fare a portare avanti le proprie battaglie per un futuro sostenibile, con chi sceglie di nuovo cemento e trivelle?
È proprio per uscire da questa dolorosa contraddizione che, dopo tanti mesi a tentare di segnalare un disagio profondo, che non è soltanto mio o di Pippo ma di moltissimi elettori che abbiamo perso per strada e ritroviamo nelle piazze, che sento di non poter più tenere questa tessera in tasca. Col dolore di chi in essa e nei suoi colori aveva trovato un’appartenenza a lungo cercata, ma ora tradita dalla foga iconoclasta con cui si passa sopra alcuni di quelli che erano i nostri principi fondanti, e dalla prepotenza di chi non tollera una voce diversa.
A chi deluderò dico che mi dispiace davvero. A chi ci guida dico che se si cerca un nemico al giorno, si allontanano anche gli amici, quelli che sfuggono alla rigida dicotomia “o vuoi innovare come diciamo noi o sei un conservatore”. Perché le cose possono cambiare in meglio o in peggio, e io vorrei le cambiassimo in meglio. A chi dei nostri sostenitori da tempo ci aspettava fuori dico che mi abbracci forte, perché è un giorno difficile. E a me stessa, per una volta, dedico quella citazione di Terzani che mi sta tanto a cuore: “Quando sei a un bivio e trovi una strada che va in su e una che va in giù, piglia quella che va in su. È più facile andare in discesa, ma alla fine ti trovi in un buco. A salire c’è più speranza. È difficile, è un altro modo di vedere le cose, è una sfida, ti tiene all’erta.”
Vi abbraccio tutti, col cuore in mano.
Testo tratto dalla pagina Facebook di Elly Schlein