Cultura

Spagna: e davanti alla tua porta la foto trovatella del bambino in valigia

abou

E’ apparsa, si è materializzata come dall’inconscio collettivo, un incubo della visione che ha attraversato non i nostri occhi, ma i nostri pori.
E’ una fotografia, o potremmo dire la fotografia di una fotografia. Quella del bambino nella valigia: il piccolo Abou, 8 anni e un punto interrogativo rannicchiati e abbracciati alla paura, in fuga nel trolley radiografato in questi giorni all’aeroporto di Ceuta, enclave spagnola in Marocco. La foto è stata rilasciata ai media dal corpo della Guardia Civil spagnola.
Non ne parlo – in molti l’hanno già fatto – dal punto di vista del senso umano, umanitario, sociale, politico, storico.
Mi occupo qui, sempre, di fotografia, e lo faccio anche questa volta.

Toccato dalla vicenda, ovviamente, ma anche pieno di domande mentre rifletto sulla natura di questa immagine, e sulla sua potenza. Credo siano centrate le impressioni di chi l’ha paragonata a un’ecografia: posizione fetale, estetica da macchinario diagnostico, un che di fantasmatico.
La “bomba emotiva” che ci esplode dentro, forse, è proprio in quel rinvio automatico alle immagini dei nostri figli – le loro prime foto, di fatto – che abbiamo visto tra eccitazione, incredulità, gioia e ansia nello studio del medico che seguiva la gravidanza della nostra compagna.
Un cortocircuito visivo a suo modo sconvolgente, anche nel vano tentativo di mantenere un occhio “analitico”.

Ma poi, a un fotografo, si “accende” una domanda tutta fotografica: chi è l’autore della foto? Potrebbe anche essere una questione ininfluente, ma io credo non lo sia nel momento in cui la ritengo una foto che, per il solo fatto di esistere, è già icona, ce la porteremo con noi, e non vedo perché non potrebbe essere, per dire, la prossima foto dell’anno al World Press Photo; ma in questa ipotesi, a chi andrebbe il premio? Chi sarebbe riconosciuto come autore? L’agente della Guardia Civil spagnola che ha fotografato il monitor della macchina a raggi X all’aeroporto? O l’operatore alla macchina stessa? O non per caso l’apparato in quanto “macchina fotografica autosufficiente”?

Una domanda volutamente provocatoria, ma credo interessante per chi si occupa di fotografia, ripensando anche a tutto il discorso centrato sul concetto di inconscio tecnologico di Franco Vaccari.
Una foto senza intenzione, una foto senza composizione, una foto senza un fotografo.
Una foto, sembrerebbe, che si fa da sé, partorita dal mezzo che la fa e di cui mostra il Dna.
I “lineamenti” di una fotografia, come quelli di una persona, non li decide la mamma, ma il suo patrimonio genetico. Quella di Abou bambino è una fotografia con i lineamenti di tutte le fughe, di tutti i tentativi di rinascere.

Una fotografia, pur così “trovatella”, dirompente e potentissima, ad un tempo antica e contemporanea. La guardo e mi viene da chiedermi cosa avrebbero avuto da dirne, per esempio, Ando Gilardi o Roland Barthes.
Abou, il bambino nella valigia, non è il soggetto di una fotografia, e la fotografia non è il suo ritratto. Egli è contemporaneamente contenitore e contenuto: contenitore di una storia tutta da raccontare e contenuto di una valigia tutta da aprire.
Ma una fotografia, nella migliore delle ipotesi, racconta solo un pezzo della storia, e può rappresentare un’apertura senza mai potersi però aprire del tutto.

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