La sentenza della Consulta sulla perequazione delle pensioni ha scatenato il finimondo.
Prescindendo da considerazioni circa gli intenti della Corte e circa la prevaricazione del potere di essa sulle scelte politiche, ciò che si dibatte dovrebbe esserlo a valle di considerazioni analitiche sensate e basate su dati il più possibile trasparenti e resi pubblici.
Purtroppo si deve constatare che così non è, ad iniziare sul valore della spesa per il bilancio dello Stato. Innanzitutto, definire la restituzione della perequazione come “spesa” è inappropriato; infatti trattandosi appunto di una restituzione la si dovrebbe definire casomai come un minore risparmio se non addirittura come un “rimedio”.
Le cifre che vengono annunciate, smentite, riviste, sono confuse e talvolta tendenziose; infatti tutti i numeri prospettati sono sempre annunciati al lordo delle imposte che, come si sa, resterebbero in mano allo Stato. La tabella seguente, costruita sulla base degli scaglioni di importo delle pensioni come pubblicati nel Bilancio sociale dell’Inps del 2013, ci dice che la perequazione che non fu bloccata dall’infausta legge Monti/Fornero ha rappresentato per lo stato un esborso teorico lordo di circa 4,7 miliardi di euro per gli anni 2013 e 2014, ma che al netto delle imposte (comprese le addizionali regionali e comunali) l’esborso reale è stato di 3,34 miliardi, destinati a ripetersi nel 2015 e negli anni a seguire, stante l’incorporazione degli aumenti da perequazione nella pensione annuale.
A fronte di questa spesa, il governo sembrerebbe ipotizzare di concedere la perequazione solo a un ulteriore massa di pensionati, aventi trattamento contenuto entro 3.000 euro lordi/mese; questo significherebbe una ulteriore spesa lorda di circa 8,6 miliardi (cumulando la retroattività 2013 – 21014 alla spesa 2015) pari a un netto di circa 5,2 miliardi.
La tabella ci dice anche come a quel punto resterebbe esclusa dalla restituzione della perequazione solo una popolazione pari al 5% dei pensionati totali (800.000) con una minore spesa netta di circa un 1 miliardo per gli anni 2012 – 2013 e di un altro miliardo per il 2015.
Sin qui le cifre calcolate in modo un po’ propagandistico. Venendo poi alla ragionevolezza del presunto progetto governativo di escludere quel 5% di pensionati dalla restituzione, la voce del governo (se il sottosegretario Zanetti – Scelta civica – non ha parlato a titolo esclusivamente personale) parla di immoralità nell’eventuale concessione della perequazione a tutti, mentre la vox populi opportunamente orientata da propaganda mediatica, ripete come un mantra che le pensioni più alte beneficiano inappropriatamente del sistema retributivo che consentirebbe loro di sottrarre risorse ai giovani.
La tabella seguente cerca di ricostruire attraverso una simulazione basata sull’ipotesi di retribuzione costante negli ultimi 10 anni, utilizzando le aliquote del sistema di calcolo retributivo e le aliquote Irpef e addizionali regionali e comunali la dinamica della formazione degli assegni pensionistici partendo dal relativo reddito da lavoro, indicando anche l’ammontare medio dei contributi dovuto per quel reddito nelle due ipotesi: lavoratore dipendente o autonomo.
Nella tabella sono riportati i redditi che avrebbero generato pensioni pari a circa tre volte la minima, a circa 3000 euro lordi/mese, con l’inserimento, per riferimento, anche di redditi di 80mila euro, 150mila euro, 200mila euro lordi annui.
La prima considerazione che si può fare è che un reddito di circa 200.000 e corrisponde a oltre 8 volte il reddito (24.000 euro) che dava luogo con il sistema retributivo, a una pensione di tre volte la minima, mentre le rispettive pensioni nette, prima della perequazione 2012-2013, stanno in un rapporto di circa quattro volte; la cosa avveniva in ragione delle aliquote contributive che assegnavano alla retribuzione più bassa un fattore di restituzione rispetto all’ultimo stipendio dell’80% e a quella più alta un fattore di restituzione del 50% e alle aliquote Irpefe addizionali progressive. Ciò, oltre a chiarire come i vantaggi del sistema retributivo fossero soprattutto addensati nelle pensioni più basse, dovrebbe anche spiegare come il complesso retributivo+tassazione progressiva di fatto re distribuisce i redditi pensionistici in maniera sostanziale. Dovrebbe anche chiarire come tale re-distribuzione, che si vorrebbe accentuare con la non perequazione delle più alte, non abbia specularità tra i redditi non da pensione dove differenze assai minori sono tollerate senza scandalo.
Infine, la tabella riporta nell’ultima colonna la perdita di potere di acquisto (al lordo) delle pensioni 2014 rispetto al 2010, già significativa a partire da otto volte la minima.
Non fa male scorrere anche le colonne che riportano le contribuzioni medie per fasce di reddito, perché aiutano abbastanza a comprendere come mai poi coloro che avendo una pensione elevata ma non avendo beneficiato di particolari accorgimenti atti a far lievitare surrettiziamente la pensione non comprendano l’aggressione mediatica che li descrive come truffatori di futuro.
Ciascuno si faccia la propria opinione sulla base dei dati, approssimativi, come da ogni simulazione, ma molto vicini allo stato di fatto.