La fuoriuscita di Pippo Civati dal Pd ha creato una notevole eccitazione presso le rive sinistre del panorama politico: agli iniziali corteggiamenti di Fratoianni per conto di Sel, si sono aggiunte anche le aperture di Rifondazione Comunista per bocca di Paolo Ferrero. La nuova condizione di “scapolo” politico del deputato monzese riaccende dunque il dibattito su parole a più riprese sbandierate, quali “costituente”, “unità della sinistra”, “coalizione sociale”, spingendo Vendola a risfoderare persino la promessa di dissolvere Sel in un contenitore più ampio.
Per chi ormai già da tempo ha compreso che il Pd non è in assoluto un soggetto di trasformazione sociale, né di difesa di conquiste passate, ma piuttosto un agente politico apertamente regressivo, lo sfilamento di Civati non può che suscitare un lieve moto di gioia. Ma dico lieve proprio perché, in fin dei conti, la questione è prettamente personale nonché distante: un po’ come quando si viene a sapere che un lontano conoscente è appena uscito da un percorso di vita particolarmente difficile. È uscito dal tunnel, evviva. Ma affari suoi, in fin dei conti.
L’eccitazione della sinistra radicale tradisce invece un modo vecchio di intendere e fare politica: crede di poter risollevare le proprio fortune non già attraverso dispute per l’interpretazione del senso comune o processi di lotta reali, ma attraverso le geometrie variabili dell’alta politica, lo spostamento di dirigenti da un contenitore all’altro. Questo nell’infondata convinzione che alle diverse correnti politiche corrispondano pezzi di società, come se l’autoreferenzialità del ceto politico non fosse un fenomeno abbastanza reale. Ma con Civati il miraggio è ancora più grande: Vendola & co. sbagliano persino nel pensare di portare dalla loro qualche truppa cammellata. Civati – un mite idealista a cui vanno riconosciuti meriti che non includono la strategia politica – esce dal Pd in solitudine, senza portare con sé quasi nessuno. Segno della continuità politica e antropologica che c’era tra i benpensanti che Civati aveva raccolto attorno a sé e il resto della «borghesia togliattiana», per mutuare la felice espressione coniata da Goffredo Fofi.
Ma perché non dire anche che Civati è uscito per la ragione sbagliata? Di tutte le potenti giustificazioni che Renzi gli ha offerto da quando ha assunto la Presidenza del Consiglio, Civati esce su quella più istituzionale di tutte, quella meno sociale, quella che parla meno alle condizioni di impoverimento e solitudine di un crescente segmento della popolazione italiana. Nonché su quella che tradisce ancora una volta i complessi della sinistra.
Dirò in questo senso un’altra cosa stridente: l’Italicum, pur approvato con una fiducia discutibile e pur contenendo una schifezza immonda come le liste bloccate, permette finalmente di avere delle maggioranze chiare. Pur senza estirpare la «miseria della vita parlamentare», si tratta di una legge elettorale che rende più difficili le geometrie variabili, gli inciuci, i voltagabbana. Il tanto vituperato premio di maggioranza non è poi quello che ha permesso a Syriza di governare in Grecia con una certa serenità? Non procura di scongiurare le grandi coalizioni che Civati ha così strenuamente combattuto?
Il fatto è che la sinistra italiana è ancora ostaggio di fantasie post-belliche, che tradiscono la sua passione per le cause superate (oltre che per quelle perse, che a volte coincidono). Se il parlamentarismo fu una risposta storica al verticalismo personalista del Ventennio, oggigiorno la chiarezza su chi vince e sul nome di chi governa prevalgono di gran lunga sui timori di presunte derive presidenzialiste. Sulla scorta degli esempi di Syriza e Podemos, la sinistra dovrebbe aprire una riflessione sulla questione del leader senza i paraocchi ipocriti dell’orizzontalismo a oltranza. Parallelamente, alla gente preoccupa di più la caciara di un parlamento inerte e litigioso rispetto alla scomparsa di partiti che rappresentano interessi corporativi e identità nostalgiche. Sarà pur arrivata l’ora di fare i conti con i sentimenti prevalenti che esistono nel Paese piuttosto che continuare ad applicare lezioni di manuali che hanno preso troppa polvere?
Mi rendo conto di essere un po’ duro con Civati, che in fondo è una delle persone meglio intenzionate offerte dalla politica italiana negli ultimi anni. A scanso di equivoci, va precisato che il vero nemico da combattere è Renzi e il suo progetto trasformista, di ricambio delle élite piuttosto che della loro eliminazione. Ma per mettere in difficoltà questa farsa gattopardesca bisogna essere capaci di riscoprire l’ampio respiro del pensiero strategico a partire dalle esigenze concrete di quella maggioranza invisibile descritta da Emanuele Ferragina per costruire un vocabolario nuovo, un orizzonte attuale di passioni politiche. Scrivo quindi per scongiurare che Civati diventi la facile preda dei tatticismi inavveduti, delle erudizioni striminzite e provinciali, dei lessici stereotipati e noiosi della sinistra nostrana, ma sappia mettere a disposizione sé stesso – come una risorsa tra le molte esistenti – di progetti che puntino un po’ più in alto (e che magari non esistono ancora).
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