La cartografia tematica dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) conferma quanto già noto in termini di consumo di suolo in Italia. Anzi, il Rapporto Ispra evidenzia un dato ancora più allarmante del previsto rispetto all’occupazione manu militari del litorale e alla pessima qualità di questa occupazione. Rimane un mistero come abbia potuto toccare anche il 9% delle aree a pericolosità idraulica, giacché secondo la norma dei Piani di Bacino sarebbe un reato se fatto dopo che le perimetrazioni furono stabilite. E se il Coordinatore della struttura di missione di Palazzo Chigi #italiasicura contro il dissesto idrogeologico rimarca la necessità di una «pianificazione con vincoli d’inedificabilità sulle aree esposte al rischio idrogeologico,» mi chiedo in che paese vivo: c’è stata la Legge 183 del 1989, ribadita dalla 152 del 2006 e la direttiva Alluvioni del 2007, passando per il decreto Sarno (nomen omen, a posteriori). Tutti provvedimenti che avrebbero dovuto svolgere esattamente quella funzione.
Al consumo di suolo, però, si accompagna il ‘vuoto urbano’, ancora poco studiato e spesso ignorato, anche se il ‘vuoto’ è sempre più un fattore organico dello spazio umano. Dall’alloggio sfitto, disabitato o sottoutilizzato; agli spazi di lavoro come fabbriche o capannoni che, in forma aggregata, diventano ‘aree dismesse’; fino ai paesi, ai quartieri o addirittura a interi territori che si trasformano in spazi della desolazione. Spazio vuoto è quindi perdita di valore sociale, ma anche di valore economico: il patrimonio immobiliare sottoutilizzato rischia una gigantesca svalutazione legata al mercato, all’usura del clima, ai costi di nuove tasse, a rendite sempre più basse e incerte. E non è un transitorio, ma una tendenza di lungo periodo, poiché la rendita finanziaria ha divorziato da quel mattone che rimane ai margini dei nodi dell’impero, per sposarsi con entità sempre più lontane e virtuali. Così il vuoto urbano dell’Italia, pubblico e privato, oggi è grande come due volte e mezza la città di Roma, 17 volte Milano, il 60% della Liguria: in pratica un territorio grande come tutta la Liguria tirrenica.
Nella postfazione, l’architetto Roberto Tognetti propone il passaggio dalle ‘buone prassi’ a una vera e propria ‘politica’. Le sue riflessioni derivano da una costante attività di ricerca sul campo e di accompagnamento all’avvio di questi progetti. E non trascurano le molte sfaccettature della questione: sociale, aziendale, urbanistica e di sviluppo locale.
Ecco: riusiamo l’Italia, dov’è logico e possibile e utile; ma abbattiamo anche l’Italia inutile che occupa fiumi e terreni in frana; e ricostruiamo un’Italia migliore laddove strutture mostruose hanno distrutto il paesaggio senza pietà per la storia e l’estetica. Prima di consegnare la matita agli architetti e agli ingegneri di quartiere va loro data in mano la gomma, per sostituire a periferie scadenti e inospitali un ambiente accogliente. Con l’obiettivo di ridurre le cubature in assoluto. E migliorare l’ambiente costruito, sostituendo o eliminando edifici e infrastrutture malati di obsolescenza non solo funzionale o estetica ma anche strutturale, poiché ferro e cemento armato non sono eterni ma invecchiano.