Società

La forza inconsapevole del Sud e la prepotenza dei Nord

Il Sud è maggioranza del pianeta”. Così Erri De Luca, giorni fa, a Foggia. Ma quella maggioranza stenta a riconoscersi e si lascia ingannare, spezzettata tra mille, falsi conflitti.

E finisce col fornire, da sempre, gli alimenti ai vari tipi di Nord che hanno divorziato dalla propria coscienza. Non parlo di geografia, o non soltanto, ma di posizioni arroccate di privilegio, che si alimentano di subalternità: sociali, politiche ed economiche. Tutto il mondo è attraversato da disparità impressionanti e vergognose e da un “certo grado di falsità incallita, che si chiama coscienza pulita”. Disparità che attraversano come faglie il pianeta, andando dalla condizione del lavoro precarizzato ed escluso dal diritto, nel civilissimo occidente neoliberista, all’instabilità permanente, indotta nelle eterne colonie del globo.

Come si fa a non ricordare le parole di Antonio De Viti De Marco, economista e statista salentino, che già nel 1903 lamentava coraggiosamente che “La tariffa del 1887 obbliga di fatto, indirettamente, il Mezzogiorno agricolo a comperare dal Nord gli articoli del suo consumo. È una forma attenuata dell’antico regime coloniale, per uscire dal quale basta pure, ma occorre, una forma attenuata di lotta per la propria indipendenza: la lotta politica. […] Sono trascorsi 15 anni, durante i quali noi abbiamo vendute a vil prezzo le nostre derrate, concorrendo al buon mercato della vita del Nord, ed abbiamo comperati ad alto prezzo i manufatti protetti, concorrendo a rincarare la vita nel Mezzogiorno”.

Cito ancora De Luca: “L’Italia è questo biscottone prolungato in mezzo al Mediterraneo, che ha ricevuto la civiltà attraverso il mare. Le popolazioni che ci hanno attraversato, ci hanno costituito. Noi siamo questa storia, la storia del Mediterraneo, dei popoli del Mediterraneo che si sono mischiati con noi. Questa è la nostra identità. Non possiamo mettere intorno a questo stivale una rete di protezione, o un preservativo”. “Io, frequentando il piano terra della società, sono ottimista. Se poi, invece, guardo il telegiornale, o ascolto le notizie della politica al telegiornale, quelle mi fanno cascare i sentimenti. Invece, frequentando il fondo di questo paese, il piano terra, sono ottimista”.

Forse perché la prospettiva di chi sta in basso, faticando a farsi spazio per raggiungere qualche centimetro quadro di luce, impone di alzare lo sguardo oltre la triste realtà delle circostanti rovine, che fungono da inciampi morali e materiali per il riscatto di un territorio, come di una singola esperienza esistenziale.

Come si fa a non accostare, a queste parole, le immagini dei barconi alla deriva nel Mediterraneo, e quelle alle moltitudini di italiani che, sul finire dell’Ottocento, dovettero emigrare per fare da contrappeso alle politiche economiche fallimentari dello Stato unitario, che allargò impunemente il grande solco tra le Italie?

L’emigrazione fu vista dapprima come un rischio per “l’equilibrio” nel paese, potendo determinare depressione nella disponibilità di manodopera, poi fu addirittura esaltata retoricamente. O usata, persino, come strumento nella nostra esperienza coloniale. Le parole di Giustino Fortunato, nel descrivere il vantaggio che l’Italia trasse dall’emigrazione, sono illuminanti: “L’emigrazione è uno dei pochi mezzi efficaci, se non a togliere, almeno ad allontanare i pericoli sollevati dalla questione delle nostre plebi agricole che ingigantisce dinanzi a noi e dinanzi alla quelle chiudiamo gli occhi. L’emigrazione migliora gradatamente le condizioni fatte ai lavoratori della terra per la diminuita concorrenza delle braccia, e, quando bene diretta, può inoltre procurare al paese nuovi capitali, se gli emigranti ritornano, influenza e sbocchi commerciali all’estero”.

Nuove forme di emigrazione, più alte e diabolicamente sofisticate, colpiscono ancora oggi la nostra terra. Nuove forme di colonialismo si leggono su una falsariga che si slancia indietro nella nostra storia, senza soluzione di continuità.

Ad ogni privilegio fa da utile contraltare una subalternità, creata quasi sempre con prepotenza. Manu militari od ope legis. Prepotenza e ipocrisia.