Il fenomeno dei cervelli in fuga è sintomo della cronica difficile situazione socio-economico-politica italiana. Negli oltre 10 anni spesi all’estero ho incontrato decine di giovani italiani migranti e penso pertanto di poter dare una opinione informata su quanto spinga molti giovani italiani ad emigrare, ma anche su quali difficoltà spingano alcuni (ma non tutti) a tornare in patria disillusi.

Cervelli in fuga sarebbe una terminologia pseudo-apocalittica da ‘gufi’, se quella di partire fosse una semplice scelta e comunque non una ‘fuga’ a fini di sopravvivenza. A mio avviso, il termine “fuga” è appropriato nel momento in cui in Italia non sia possibile realizzare le proprie ambizioni professionali. Per esempio, nel mio caso, per ottenere la specializzazione che mi interessava l’emigrazione era l’unica soluzione poiché in Italia il tipo di training necessario non esisteva (e non c’è tutt’oggi). Il termine ‘fuga’ rimane ancor più appropriato se i titoli finalmente acquisiti non sono ufficialmente riconosciuti in Italia, sebbene lo siano a livello europeo. Sebbene questo esempio sia molto specifico è probabilmente applicabile a molti ambiti professionali.

Tuttavia, al contrario di quanto molti credono, la strada che porta al ‘successo’ in Uk è spesso impervia e molti sono gli ostacoli da affrontare in ogni istante della vita quotidiana che, a lungo andare, possono piegare l’animo impreparato.

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La lingua è il primo ostacolo, scontato ma inesorabile, e non risparmia nessuno. A mio avviso senza un minimo 6-12 mesi in ‘isolamento linguistico’, la comunicazione risulterà inadeguata in molti casi e limiterà la prospettiva di trovare un lavoro all’altezza delle aspettative. A tal punto la ‘gavetta’ (anche con un lavoro diverso da quello per cui si era studiato) sarà necessaria per lo più per imparare a capire ed esprimersi adeguatamente in un mercato del lavoro competitivo.

A mio avviso non vanno sottovalutate le differenze socio-culturali tra britannici e italiani: per esempio qui è maleducazione non aspettare il proprio turno per parlare in una conversazione, e si può dire a un interlocutore ciò che si pensa di lui/lei o del suo operato solo in maniera indiretta, usando modi di dire che tradotti alla lettera in italiano hanno il significato opposto. Per quanto semplici e innati per gli indigeni, tali comportamenti non sono per nulla immediati per noi italiani. Lo stesso dicasi per cose come sapere stare in coda, il gesticolare eccessivamente, l’invasione dello spazio personale, guidare in maniera cortese, per citarne alcuni. Insomma occorre imparare quando un comportamento è appropriato o meno, pena l’apparire maleducati e con la maleducazione qui non si va da nessuna parte.

Queste regole sociali ‘non scritte’ si imparano solo vivendo nella società anglosassone. Per quanto alcune caratteristiche di noi italiani possano essere un qualità nel Bel Paese, qui spesso non lo sono e bisogna giocare secondo le regole locali.

Mentre tali difficoltà possono sembrare triviali, occorre considerare che in un ambiente lavorativo competitivo in cui si guarda molto oltre che ai meriti anche alla personalità (non è sempre e solo meritocrazia, ma anche la capacità di lavorare nel team), l’uscire troppo dai canoni della british politeness è spesso un deficit, particolarmente all’inizio della carriera. Disparità comunicative, linguistiche e culturali sono insormontabili laddove non ci si renda conto della loro esistenza e si decida di tornare in patria prima di imparare a vivere secondo il modello comportamentale locale.

Con il ‘senno del poi’ raccomanderei a tutti i giovani che vogliono partire per la Gran Bretagna senza avere già in mano un lavoro, di aspettarsi almeno un anno (più probabilmente 2-3) con soddisfazioni sotto le aspettative. Tuttavia, dopo la ‘gavetta’ si inizierà ad apprezzare il vivere in una società in cui il rispetto diligente delle regole è un valore importante e in cui gli sforzi vengono solitamente premiati.

di Marco Duz
Medico veterinario, laureato in Italia ed emigrato dal 2004, ho passato 18 mesi in USA e i restanti 9 anni in UK in Scozia. Attualmente lavoro come Assistant Professor alla University of Nottingham, nelle Midlands.
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