L'esito di un processo per diffamazione mette un punto fermo nei misteri sulla gestione del dopo sequestro. Il giornalista Magosso e l'ex carabiniere Arlati avevano scritto in un libro che l'ufficiale dei carabinieri e del Sisde portò via le carte dal covo di via Monte Nevoso e le restituì visibilmente "assottigliate". I giudici di Milano: "Fatti realmente accaduti"
I misteri del caso Moro tornano sempre a galla. Il Memoriale non fa eccezione. La magistratura ha stabilito uno dei (pochi) punti fermi della vicenda. La seconda sezione civile della Corte d’Appello del Tribunale di Milano, presieduta da Nicoletta Ongania, ha infatti assolto dal reato di diffamazione il giornalista Renzo Magosso e l’allora capitano dei Carabinieri Roberto Arlati, autori di un testo base della complicata e oscura vicenda, “Le carte di Moro. Perché Tobagi”, pubblicato nel 2004. Magosso e Arlati hanno scritto che il colonnello Bonaventura entrò nel covo durante la perquisizione e portò via le carte, restituendole dopo qualche ora, visibilmente assottigliate. La motivazione data dai giudici è chiara: scrivono che “la parte del libro che tratta del ritrovamento delle ‘carte di Moro’ ha ad oggetto fatti realmente accaduti” e “dà conto di episodio storicamente accertato, consistente nell’asportazione del fascicolo dall’appartamento di via Monte Nevoso prima della numerazione dei fogli di cui era composto”.
Questa importantissima sentenza (1505 del 7 aprile 2015) stabilisce dunque una verità della quale giornalisti e ricercatori devono tener conto: le carte trovate nel covo milanese di via Monte Nevoso il 1 ottobre 1978 furono sfoltite, assottigliate e fatte sparire prima che potesse intervenire la magistratura. La rivelazione di Magosso e Arlati è alla base delle successive ricostruzioni dell’intrigatissima matassa delle carte scomparse di Moro (come è noto sono state ritrovate nel 1978 solo fotocopie di dattiloscritti e, nel 1990, di manoscritti) fatta da ogni ricercatore e ripresa anche dal recente “Complici. L’accordo segreto Dc-Br” (ed. Chiarelettere) nel quale si sostiene che quel pacchetto di documenti fu oggetto di una trattativa il cui risultato fu la scomparsa dalla scena pubblica almeno una parte di quelli elaborati da Moro in forma di riflessioni o di risposte alle domande di chi lo aveva in custodia.
La sentenza di Milano nasce dalla denuncia da parte della sorella di Umberto Bonaventura, Agata, secondo la quale Magosso e Arlati avevano diffamato il congiunto. Uomo agli ordini del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, poi passato ai servizi, Bonaventura è scomparso nel 2003 quando era il responsabile dell’ufficio Sisde dei carabinieri alla vigilia di una delicata e attesa audizione in Parlamento in merito allo scottante dossier Mitrokhin. Non resta che sperare nella possibilità, nell’immediato futuro, di una ricostruzione non ‘addomesticata’ del caso Moro, tentativo nel quale si sta cimentando anche una nuova Commissione parlamentare d’inchiesta. Vedremo con che risultato.