Alla fine a fare il passo indietro non è stato Gianni Zonin, come aveva comunicato in assemblea, ma l’amministratore delegato e direttore generale della Banca popolare di Vicenza, Samuele Sorato. Una rottura insanabile quella con il presidente che ha portato Sorato a rassegnare le dimissioni da ogni incarico e che ha spinto Zonin a richiamare a Vicenza, per la terza volta, il settancinquenne Divo Gronchi. Un banchiere di sicura esperienza e con ottime relazioni in Banca d’Italia: fu lui a prendere il timone della Popolare di Lodi per traghettarla fuori dall’era Fiorani e portarla alla fusione con la Popolare di Verona dando vita al gruppo Banco Popolare. Se Gronchi accetterà l’incarico (in subordine per la poltrona di amministratore delegato si fa anche il nome di Carlo Crosara, ex direttore generale di Friuladria) sarà chiamato a dare corpo al piano “A”, ossia condurre a nozze Vicenza con Veneto Banca.
Una pratica difficile che Gronchi conosce bene, visto che in passato aveva condotto un primo tentativo finito nel nulla. E anche oggi, nonostante la spinta alle aggregazioni dettata dalla riforma delle banche popolari e ancor più dalle difficoltà dei bilanci (sia Vicenza, sia Veneto Banca hanno chiuso il 2014 con perdite astronomiche e svalutazioni per oltre un miliardo di euro), a Montebelluna non sono affatto convinti che da queste nozze abbiano a guadagnarci. Certo, essendo due popolari non quotate ci sarebbero meno problemi con i concambi, ma detto questo è detto quasi tutto. Le due banche infatti insistono più o meno nello stesso bacino, dove ora si fanno concorrenza. Un domani, unite, si troverebbero a gestire chiusure di filiali ed esuberi ben superiori a quelli oggi previsti dai piani industriali “stand alone” (la Popolare di Vicenza nel piano 2015-2019 prevede ad esempio la chiusura di 160 sportelli e 200 esuberi e ha già aperto il tavolo con i sindacati).
Per non parlare delle piccole e medie imprese, degli artigiani, delle aziende agricole, dei commercianti: la grande banca del Veneto, essendo una, finirebbe giocoforza con dare meno soldi alle imprese della regione con buona pace della retorica del territorio. Per contro, avrebbe molto più potere, conterebbe di più, ed è forse anche per questo che piace a Gianni Zonin e a una certa politica, alla Lega soprattutto, che non a caso preme perché il matrimonio sia fatto. A Montebelluna, però, restano molto freddi e vivono con un certo fastidio il crescendo di dichiarazioni pubbliche, di articoli di giornale, di ragionamenti che perorano le nozze con Vicenza. Molto pragmaticamente Veneto Banca ha deciso di affidare a un advisor, Rothschild, la presentazione di diverse ipotesi di aggregazione per valutare i pro e i contro numeri alla mano. Insomma, se matrimonio deve essere, che sia almeno matrimonio d’interesse.
Sotto questo profilo, l’insistenza vicentina appare sospetta: che la popolare presieduta da Zonin non sia messa bene lo dicono i numeri e le grane non sono certo finite. Se è vero che il 7 maggio la Bce ha comunicato a Vicenza che il requisito patrimoniale minimo in termini di CET1 ratio è stato ridotto dall’11 al 10,3% (resta invece invariato all’11% il requisito in termini di Total capital ratio), è anche vero che a Vicenza è tutt’ora in corso un’ispezione della Bce sulla gestione del rischio del portafoglio finanziario, mentre la Consob vuole vederci chiaro sulla questione delle azioni, svalutate del 23% proprio a ridosso dell’ultima assemblea e ancora ampiamente sopravvalutate rispetto alla media delle banche quotate in Borsa. Azioni del tutto illiquide che molti clienti sono stati obbligati ad acquistare per ottenere finanziamenti dalla banca. Un problema, questo, che è di casa anche a Montebelluna dove i soci sono infuriati tanto quanto a Vicenza, ma nell’ambito della partita delle aggregazioni Veneto Banca sembra avere diverse possibilità tra cui scegliere, mentre Vicenza no. E questo la dice lunga sulla gestione Zonin cui la Banca d’Italia, nonostante tutto, continua a lasciare inopinatamente carta bianca.