Il mantra che ripeto sempre io, nei miei libri, nei miei lavori, nelle interviste che scrivo, nei miei reportage è quanto sia importante il calcio per le contaminazioni, per raccontare altro, per raggiungere chiunque, e come metafora della vita. Il calcio (e solo il calcio) è una potenza che va utilizzata, per entrare nelle vite e capire le cose di tutti i giorni. Per diffondere storie piccolissime o immense. Per raccontare i valori, per tornare bambini. E la puntata monografica su Baggio mi ha permesso di ripercorrere tutto questo. Perché Baggio è stato il grande rappresentante della diversità, nel mondo del calcio, e rispetto agli altri calciatori. Il genio disciplinato, che non beveva, non si drogava, e pregava Buddha. Uno che quando al suo paese si costruisce la casa dei sogni non ci mette nemmeno la piscina. E questa diversità, per molti allenatori, era da mettere sotto il tappeto, era da nascondere. Perché lui aveva sempre l’aria di quello che non ti chiede niente, con il suo borsone di pelle a tracolla con dentro gli altarini. Mai uno sguardo sperduto, mai uno smarrimento con la palla e con la vita. Un altro, con le sue cicatrici, con le sue ginocchia sfasciate e riparate, con la sua carriera piena di cancellature sarebbe andato fisso al bar, per brindare continuamente con il passato. Lui non è stato Noè che salva tutti. Baggio era quello che faceva l’adolescente anche se non gli andava, con le treccioline, con il cappellino da baseball rovesciato. Quello che non sta mai dove stanno gli altri, ma da un’altra parte. E viaggiava sottobraccio a Buddha, in pochi lo hanno capito.
Baggio non era un cerino che a poco a poco brucia, ma uno che dà scosse elettriche anomale, improvvise. Per questo, poi: due menischi in meno, il legamento del ginocchio ricostruito, tre operazioni, due anni senza giocare. Ma la sua fragilità era apparenza. Perché se cercavate i segni dei lividi su di lui, i segni dell’offesa, della disperazione, non ne trovavate traccia. Ha sempre avuto negli occhi una goccia di serenità che ti costringeva a tuffarti dentro. Lui diceva nei post-partite a chi lo intervistava: “Ho fatto tutto quello che ho potuto”, come dire: è il destino di chi ha sempre belle carte e perde la partita. Non c’è favola, per Baggio. Perché non gliel’hanno regalata. Gli hanno tolto il pallone dai piedi, semplicemente. Quando era arrivato alla Fiorentina, tutti lo consideravano l’erede di Antognoni. Ma non era così, c’è stata molta confusione nel capirlo. Antognoni era il disegno di Michelangelo: tondo, morbido, perfetto. Baggio era l’opposto: più cubista, più sbilenco, i suoi gol in sottrazione, bellissime marce scombinate, prima forte, poi piano, il resto a zig zag. Lui rispondeva così a chi gli chiedeva spiegazioni sul suo modo di giocare: “In campionato gioco fino a quando mi diverto, vale a dire 40 minuti, per il resto metto il pilota automatico”. Per questo i cronisti americani, nella finale di Usa 94 a Pasadena, lo hanno definito l’italiano più brasiliano che esista.
Per questo, uno come Lippi non lo ha mai abbracciato: Baggio per lui era un giocatore ingombrante, per colpa della sua diversità, e della sua anima. E quindi, piuttosto, era meglio farlo passare come un giocatore stanco, e dalla forma imperfetta. Lui con i suoi tre mondiali alle spalle infastidiva nello spogliatoio. Almeno Maradona era considerato un capopopolo, nello spogliatoio era amato, Baggio invece se ne stava lì. Ma non solo Lippi, anche Sacchi, Ancelotti, Ulivieri, la diversità dà fastidio. E’ questa l’enorme metafora della vita. E’ questo il grande dettaglio in cui immedesimarsi nella vita di tutti i giorni. Hanno cercato in tutte le maniere di renderlo un disadattato, con molto sadismo lo hanno annientato, e reso un drop out del calcio offensivo.
Sempre a un passo dall’inifinito. Baggio è stato questo. Ci sono giorni che devi bruciare, e invece sui appena vedeva l’orizzonte se ne andava. Ma poi gol bellissimi, e tanti assist. Tutti abbiamo impressi nella memoria i suoi gol. Il mio preferito è il primo gol in maglia azzurra, alla sua prima partecipazione in un mondiale (Italia 90, in panchina Vicini, lui con la maglia numero 15), contro la Cecoslovacchia, scambio con Giannini, e poi bribbla mezza squadra avversaria attraversando tre quarti di campo. Come dire: ‘i vincenti si riconoscono alla partenza, riconosci i vincenti e i brocchi’ (diceva Robert De Niro, in C’era una volta in America). O anche il gol da sicario, quella perfetta rasoiata alla gola della Nigeria, in Usa 94. E poi Maldini che fa? A Francia 98 crea quella querelle con Del Piero…ma dai. E appena sedeva in panchina Baggio, scoppiava la rivolta di tutti i tifosi di tutto il mondo. Baggio si è divertito nell’Italia, e ha fatto divertire noi. Ed è stato ingiusto quell’accanimento contro di lui per il rigore sbagliato in Usa 94 (ricordo pure Dustin Hoffman in piedi sugli spalti, che aspettava il Settimo cavalleggeri che non arrivava mai). Lo hanno trattato da impostore: come uno che ti aspetti che tiri fuori il coniglio dal cilindro, e lui non lo ha tirato fuori, quindi neanche mago a metà, solo impostore. Ma tanto Baggio ha l’anima scolpita prima dei muscoli. E’ per questo che sta bene, che ha qualcosa di più grande a cui pensare. Lui è uno che quando gli chiedevano il motivo dei suoi tanti cambi di maglia, ti rispondeva: “Comunque, la squadra più grande dove ho giocato sono le giovanili del Vicenza che all’ala sinistra aveva Gianni Bonfante, molto più bravo di me”. Ma non cercatore questo Bonfante, non è nessuno. Baggio ci fa capire che c’è solo una cosa peggiore di chi ha il destino sui campi di calcio intermittente, sfilacciato e tagliuzzato, quello di non averne uno.
Ps: non esiste un erede di Baggio. Ma posso metterne insieme tre. Scelgo: Insigne, Verratti e Pirlo. Ma tutti e tre, non fanno Baggio.
Pps: la mia personalissima classifica delle infatuazioni calcistiche/legate alla vita, di tutti i tempi, ha questo podio: 1 Zidane, 2 Baggio, 3 Tevez (Tevez, new entry). La vostra?