"Le indagini e le valutazioni sulla vicenda sono state affidate alla Prima Commissione" detto il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini. I giudici della corte d'Assise di Chieti derubricarono il reato disastro ambientale doloso in disastro colposo e per questo gli imputati, ex dirigenti e tecnici della Montedison, era stata emessa anche una sentenza di non luogo a procedere per sopraggiunta prescrizione
Atti che sono rimasti sconosciuti a chi doveva decidere e sollecitazioni forti perché una sentenza andasse a favore degli imputati. Il Csm ha aperto una pratica sulle pressioni denunciate dai giudici popolari al Fatto Quotidiano sulla sentenza emessa per la vicenda della discarica Bussi. Un verdetto che aveva sorpreso e che aveva lasciato l’amaro in bocca di chi si chiedeva se la morte di un famigliare poteva essere collegato all’avvelenamento delle acque per le cosiddette discariche dei veleni della Montedison scoperte a Bussi sul Tirino (Pescara) nel 2007. Come ipotizzato dagli inquirenti abruzzesi. I giudici hanno rivelato di non essere stati sereni durante la decisione di assolvere tutti e 19 gli imputati. Una condizione che di fatto e in diritto inficia la sentenza.
“Le indagini e le valutazioni sulla vicenda sono state affidate alla Prima Commissione” ha detto il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini. La decisione di intervenire è stata presa “dopo aver ricevuto una missiva dell’avvocato dello Stato Cristina Gerardis su quanto riferito da articoli di stampa” ovvero l’articolo pubblicato sul nostro giornale questa mattina. L’avvocatura dello Stato aveva chiesto danni per un miliardo e 880 milioni.
Vale la pena ricordare che i giudici della corte d’Assise di Chieti derubricarono il reato disastro ambientale doloso in disastro colposo e per questo per gli imputati, ex dirigenti e tecnici della Montedison, era stata emessa una sentenza di non luogo a procedere per sopraggiunta prescrizione.
La camera di consiglio era durata cinque ore ed era stato emesso un dispositivo di sei righe con l’indicazione che le motivazioni sarebbero state depositate entro 45 giorni. I pm, che avevano parlato per due giorni per un totale di 16 ore, avevano chiesto condanne che andavano dai 12 anni e 8 mesi ai 4 anni.
Il processo era partito il 25 settembre 2013 a sei anni dalla scoperta di quella che i pm di Pescara avevano definito “la più grande discarica abusiva di sostanze tossiche mai rinvenuta in Italia e
addirittura in Europa”, sequestrata nel marzo 2007 dal Corpo Forestale, a meno di 20 metri dalla sponda destra del fiume della città abruzzese. La discarica, situata vicino al polo chimico di Bussi, secondo l’ipotesi dell’accusa sarebbe stata destinata “allo smaltimento illegale e sistematico di ogni
genere di rifiuti ed in particolare di cloroformio, tetracloruro di carbonio, esacloroetano, tricloroetilene, triclorobenzeni, metalli pesanti”.
Il processo, inoltre aveva subito un rallentamento, perché la Corte d’Appello dell’Aquila il 14 aprile del 2014 aveva accolto l’istanza di ricusazione presentata dalle difese nei confronti del presidente della Corte d’Assise di Chieti Geremia che in una intervista aveva dichiarato che la Corte avrebbe “reso giustizia al territorio”. Il giorno dopo le difese avevano presentato una istanza di rimessione in Cassazione del collegio giudicante e le udienze erano state sospese in attesa della decisione della Cassazione.
Ad aprire, le arringhe della difesa Montedison, era stata il 24 ottobre del 2014 l’ex ministro della Giustizia, Paola Severino, che da ex rappresentante del governo Monti aveva chiesto che fosse lo Stato a pagare. Citando la favola di Biancaneve, per spiegare il nesso causa effetto, l’ex Guardasigilli aveva definito gli imputati semplici capri espiatori per ché non aveva mai dato la “mela volontariamente e non volevano uccidere nessuno”. Anche tutti gli altri avvocati difensori, tra cui Marco De Luca Nadia Alecci Carlo Baccaredda Augusto La Morgia Leonardo Cammarata Giancarlo Carlone, avevano chiesto l’assoluzione degli imputati. E la corte aveva accolto. Il 2 febbraio del 2015 erano state depositate le motivazioni in cui si stabiliva che era emesso un verdetto di assoluzione perché ”non vi era alcuna ragione sotto il profilo dell’interesse personale dei singoli imputati, ma anche nell’ottica di una sorta di interesse superiore e unificante estrinsecantesi in direttive date in attuazione della politica di impresa volta a minimizzare i costi per la tutela ambientale, che potesse in alcun modo giustificare la scelta, volontaria e consapevole, di avvelenare le acque di falda emunte al campo pozzi. A ben vedere una simile scelta sarebbe stata non solo del tutto incompatibile con l’ordinario agire umano, ma anche controproducente sotto il profilo strettamente imprenditoriale”.