La vita insieme e l'arrivo di una grave forma di aplasia midollare che ha costretto Benet a due trapianti. Dopo cinque anni di cure mediche, i due hanno raggiunto la vetta del Kangchenjunga, la terza montagna più alta della Terra. La loro storia in un libro
Tra qualche giorno Nives Meroi e Romano Benet festeggeranno il loro record, la loro vittoria più importante: una scalata durata cinque anni. Era infatti il 17 maggio 2009 quando i due atleti, compagni di cordata e di vita, stavano salendo sul Kangchenjunga, la terza montagna più alta della Terra (8586 m s.l.m) tra il Nepal e lo stato indiano del Sikkim, quando a quota 7500 metri Romano, il marito, si sentì male. “Portiamoci a 7600, piantiamo il campo, poi tu vai in vetta e io aspetto. Tanto ci sono anche altre spedizioni” propose alla moglie. “Non ti farò aspettare” gli rispose Nives, mentre insieme cominciavano la discesa.
In realtà quel momento decretò l’inizio della scalata più difficile della vostra vita di coppia: il malore era il sintomo di una grave forma di aplasia midollare che ha costretto suo marito a due trapianti di midollo.
Proprio così. E sapevo bene come le condizioni fisiche possano rapidamente decadere a quelle altitudini, quindi non ho pensato neppure per un momento alla possibilità di passare la notte in vetta.
Lei era un’atleta donna in competizione nel raggiungere tutte le cime senza aiuto di ossigeno che si stava giocando il suo record personale del 12° Ottomila eppure non ha pensato in alcun modo a proseguire in solitaria per completare la sua missione.
Assolutamente no, proprio perché la montagna ti insegna che devi muoverti consapevole delle tue forze ma soprattutto ti addestra alla disciplina dell’altra persona. L’obiettivo principale è raggiungere la cima nell’integrità della cordata. Per noi ovviamente il legame era maggiore, tuttavia sarebbe stato lo stesso anche se Romano non fosse stato mio marito.
Il 17 maggio 2014, dopo cinque anni di cure mediche, siete tornati in quel posto esatto e avete raggiunto la cima insieme. Riesce a descrivere cosa avete provato?
Non è stata una sensazione di gioia forte, lo ricordo benissimo. Eravamo accovacciati uno di fronte all’altro. In quel momento si chiudeva il cerchio di un’avventura di vita che passando dalla grave malattia aveva cambiato tutto il nostro modo di affrontare le cose.
Eravate soli?
Sì e no. Soli perché gli altri gruppi avevano deciso di non proseguire a causa delle condizioni climatiche non ottimali. Ma con noi c’era l’uomo, il donatore di midollo, il cui grande gesto gratuito, anonimo e silenzioso aveva permesso a Romano di continuare il suo cammino di vita.
Pensavate ci sareste riusciti?
Sicuramente il nostro stimolo più grande è stata la bellezza della montagna che volevamo rivedere insieme. Ci ha dato la forza di resistere nella scalata più difficile fatta di prove, nuovi tentativi, incertezze. È chiaro che le metafore tra la montagna e l’incognita di una malattia si sprecano ma noi l’abbiamo vissuta proprio così. Non pensavamo di raggiungere la cima, ma passo dopo passo ci siamo riusciti. Anche se in realtà non esiste, idealmente abbiamo scalato il 15esimo Ottomila.
Da qualche giorno si trova nelle librerie, per i tipi di Rizzoli, “Non ti farò aspettare – la storia di noi due raccontata da me”. È stato difficile trasferire una parte della vostra vita in un libro?
L’idea è venuta alla mia Editor Lydia Salerno che mi ha contattato nel 2009. Io continuavo a rimandare però lei è stata brava ad avere tanta pazienza e crederci. Quando poi ho firmato il contratto mi ha assalito una grande paura perché temevo di non farcela. Scrivere è difficile. Per il titolo dobbiamo ringraziare l’amico Erri De Luca che ha avuto l’idea. Con lui peraltro abbiamo scalato due cime in passato e in questi anni ci è sempre stato vicino.
Raccontate molto del Nepal, che per voi è come una seconda casa…
Esatto. Parlo tantissimo di quel paese che ci ha dato tanto e che purtroppo oggi non è più quello di prima. Soprattutto in termini di vite umane, oltre che di edifici e monumenti. Il Nepal era già uno dei paesi più poveri al mondo e ora la situazione rischia di peggiorare anche perché, passata la fase dell’emotività, ci si potrebbe dimenticare di quanto hanno bisogno. Tra poco inizierà la stagione dei monsoni. Già adesso ci sono sentieri aggrappati alla montagna che molto probabilmente sono stati distrutti e nelle vallate potrebbero esserci dei dispersi. Noi alpinisti abbiamo grandi doveri: abbiamo ricevuto molto e dobbiamo restituire. La cosa che poi non deve mai interrompersi è il flusso turistico che rappresenta la fondamentale voce di sussistenza del paese.
Ora vi mancano Annapurna e Makalu per completare tutti i 14 gli Ottomila della terra. State pensando di conquistare anche quelle vette?
A essere sinceri dopo tutte le vicissitudini che abbiamo passato non facciamo programmi a lungo termine. Ci piacerebbe molto ma, come in cordata, preferiamo fare un passo dopo l’altro.