Da ieri, grazie al nostro Antonio Massari, sappiamo che la sentenza della Corte d’assise d’appello di Chieti che mandò in parte assolti (per avvelenamento delle acque) e in parte prescritti (per disastro ambientale) 19 ex dirigenti e tecnici della Montedison, imputati per il mortifero inquinamento causato dalle discariche di Bussi sul Tirino (Pescara), è altamente sospetta di pressioni indebite di un giudice togato su alcune giurate. Le quali le hanno raccontate al nostro inviato, sostenendo di non essere state ammesse alla lettura degli atti e soprattutto di essersi sentite dire dal presidente che “se avessimo condannato per dolo, e se poi gli imputati si fossero appellati e avessero vinto la causa, avrebbero potuto citarci personalmente, chiedendoci i danni, e avremmo rischiato di perdere tutto quello che abbiamo”.
La simpatica conversazione – raccontano sempre le due giurate, due cittadine come noi estratte a sorte per giudicare un caso più grande di loro – avvenne in un ristorante-pizzeria di Pescara il 16 dicembre scorso, tre giorni prima della sentenza. A quella cena, presenti il presidente della Corte e il giudice a latere, si parlò del cuore del processo: il “dolo” contestato dai pm Bellelli e Mantini ai 19 responsabili della Montedison, accusati di essere ben consapevoli dell’inquinamento che gli stabilimenti causavano da anni al territorio e di non aver fatto nulla per scongiurarlo e per mettere sull’avviso la popolazione, e dunque imputati di disastro doloso (intenzionale).
Le due (su sei) giudici popolari, da quel che avevano visto e sentito nelle varie udienze del processo, si erano convinte del dolo (come del resto la parte civile pubblica, l’avvocata dello Stato Cristina Gerardis). Il presidente invece optava per la colpa, che avrebbe portato alla derubricazione del reato di disastro da doloso a colposo, punito con pene inferiori e soprattutto con prescrizione più breve e già scattata. I diversi convincimenti fra i membri di un collegio (specie se misto, come quello dell’Assise, fra giudici togati e popolari) sono fisiologici. Così come la sentenza di primo grado che, derubricando il reato, fece scattare la prescrizione per il disastro ambientale. Ciò che è patologico sono tre elementi testimoniati dalle due giurate. 1) Il mancato accesso agli atti. 2) L’assenza del voto in camera di consiglio, decisivo per stabilire quale delle due tesi dovesse prevalere. 3) La frase che il presidente avrebbe pronunciato alla cena, che non poteva non coartare il libero convincimento dei giudici popolari, con la minacciosa prospettazione della loro rovina economica.
Ora, sulla correttezza della condotta del presidente, si pronunceranno il titolare dell’azione disciplinare (il ministro Orlando, che ha già chiesto gli atti in vista di una molto opportuna ispezione alla Corte di Chieti) e il Csm, nonché i giudici della sede più vicina competente a giudicarlo. E, per fortuna, quel verdetto potrà essere ribaltato in appello, o addirittura rifatto in primo grado. Ma questa vicenda illumina meglio di tutte le chiacchiere politico-giuridiche il tema delicatissimo della responsabilità civile dei magistrati, specie alla luce della sciagurata legge approvata dal Senato il 20 novembre 2014 e dalla Camera il 24 febbraio 2015: proprio a cavallo del processo di Chieti.
“Finalmente i giudici pagano per i loro errori”, era il refrain dei trombettieri della cosiddetta “riforma”, e naturalmente del premier Renzi con le grancasse di tutta la grande stampa al seguito. Il risultato della campagna e della suprema porcata lo racconta a perfezione la nostra storia: stabilire che qualunque imputato può denunciare i suoi giudici (togati e popolari), attraverso lo Stato, per qualunque decisione sgradita, in qualunque fase del giudizio, e senz’alcun filtro di ammissibilità da parte del tribunale ricevente, equivale a sottoporre tutti i collegi alla spada di Damocle permanente delle cause per danni. Soprattutto quando sul banco degli imputati c’è un soggetto potentissimo (come la Montedison), per giunta assistito da un avvocato famoso e ben introdotto (come Paola Severino, fino all’anno prima ministra della Giustizia).
A furia di sproloquiare sullo strapotere dei giudici, si è perso di vista un fatto tipico dei tribunali: la bilancia della giustizia è squilibrata nel senso opposto a quello della vulgata corrente, con i pm e i giudici (specie quelli popolari estratti a sorte) nella parte del soggetto debole e l’imputato in quella del potere forte. E così la massima latina in dubio, pro reo va riformulata in sine dubio, pro potenti. In fondo è quel che volevano i “riformatori”, dopo troppi processi contrassegnati dalla legge uguale per tutti: ripristinare la vecchia, lurida giustizia di classe, forte coi deboli e debole coi forti. Ieri la Procura di Chieti ha umoristicamente aperto un fascicolo contro le due giudici popolari (di cui ovviamente custodiremo l’anonimato) per violazione della camera di consiglio, anzi di coniglio.
Già, perché la legge vieta di svelare ciò che avviene nelle segrete stanze dove si decidono le sentenze, anche se vi si commettono dei reati (così decise la Cassazione quando assolse il giudice Carnevale: i colleghi che lo accusavano di pressioni indebite nelle camere di consiglio dei processi di mafia non potevano svelarle, così lui fu assolto per le pressioni indebite). Un’assurdità che sarebbe ora di troncare: i cittadini hanno il diritto di sapere se le sentenze sono regolari o viziate da condizionamenti esterni o interni. Altrimenti vale il detto “le sentenze sono come le salsicce: meglio non sapere come si fanno”. In ogni caso, le pressioni denunciate sul processo di Chieti sono avvenute al ristorante, dunque nessuno ha violato alcun segreto. A meno che non si voglia istituire la pizzeria di consiglio.
Il Fatto Quotidiano, 14 maggio 2015