Le imprese fermino le conversioni di contratti a termine in tempo indeterminato. L’appello è stato lanciato dall’Associazione nazionale consulenti del lavoro (Ancl), che parla esplicitamente di un rischio di incostituzionalità di un articolo del Jobs act. Un problema non da poco: secondo i dati Inps, a marzo 2015, mese di esordio del contratto a tutele crescenti, ci sono state oltre 31mila conversioni che hanno beneficiato dell’esonero contributivo. Tutte quelle successive al 7 marzo, secondo i consulenti del lavoro, possono essere interessate a un eventuale intervento della Corte costituzionale.
Non si tratta solo una grana per le imprese, ma anche di un nodo politico per il governo, che sul Jobs act ha messo la faccia. Pochi giorni fa, alla pubblicazione dei dati Inps sulle nuove assunzioni nel primo trimestre 2015, il premier Matteo Renzi aveva esultato rivendicando la scelta di favorire le conversioni in rapporti a tempo indeterminato. “Mi colpisce – scriveva il Presidente del Consiglio su Facebook – che ci sia chi dice: ‘beh però una parte non sono nuovi contratti, ma regolarizzazioni e stabilizzazioni’: fa sorridere! Era infatti proprio quello che volevamo. Non è la stessa cosa per un precario vedere trasformato il proprio contratto a tutele crescenti: è una svolta per la vita di tanti ragazzi della nostra generazione”. Ora, un possibile vizio di forma nella stesura del decreto rischia di trasformare quella “svolta per la vita” in un boomerang per il governo.
Il problema sollevato dai consulenti del lavoro, infatti, ha un nome ben preciso: eccesso di delega. A dicembre, il parlamento ha approvato la legge delega del Jobs act, che dava al governo la facoltà di stendere i decreti attuativi della riforma del lavoro. Il testo stabilisce che il contratto a tutele crescente sia previsto “per le nuove assunzioni“. Eppure, nel relativo decreto attuativo si presenta uno scenario diverso. La norma prevede infatti di applicare le regole del nuovo contratto “anche nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del presente decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato”.
I consulenti del lavoro hanno così rilevato questa incongruenza ed evidenziato il pericolo di un eccesso di delega: dalle sole “nuove assunzioni”, segnala l’Ancl, il governo si è allargato rispetto ai paletti prefissati e ha esteso l’ambito di applicazione anche ai contratti convertiti. Pertanto, i consulenti consigliano alle imprese di non procedere alla conversione dei contratti a termine, ma di aspettare la loro naturale scadenza ed effettuare quindi una nuova assunzione del dipendente che si vuole stabilizzare.
“Se la questione sollevata fosse fondata – afferma Francesco Longobardi, presidente nazionale Ancl – il rischio è che una eventuale pronuncia della Corte Costituzionale, che può avvenire anche fra anni, porti all’applicazione della disciplina generale sui licenziamenti a contratti che si era creduto di stipulare a tutele crescenti, con un altrettanto evidente rischio di pesanti sanzioni per le imprese”. In poche parole, Longobardi prefigura uno scenario fatto di continui ricorsi in tribunale. Se la Consulta riconoscerà l’eccesso di delega, è il ragionamento, alle conversioni dovranno applicarsi le regole dei vecchi contratti e non quelle delle tutele crescenti. Di conseguenza, tutti quei licenziamenti “liberalizzati” dal Jobs act non sarebbero più legittimi, nel caso di rapporti di lavoro convertiti da tempo determinato a indeterminato. E a quel punto, i lavoratori lasciati a casa potrebbero rivolgersi ai tribunali. Producendo l’effetto contrario a uno dei principi cardine del Jobs act: libertà di licenziare senza passare dal giudice.