Quasi trent’anni di televisione, e non finisce stasera con l’ultima, anzi la penultima puntata di Servizio Pubblico, rituale chiusura di stagione prima di un epilogo in piazza a metà giugno, sempre trasmesso su La7. In mezzo, Announo di Giulia Innocenzi. Per trent’anni, Michele Santoro ha raccontato l’Italia, la politica più melmosa e la cronaca più efferata. Un lungo periodo da Michele chi? (citazione di Enzo Siciliano, scrittore e presidente Rai, e titolo di un libro) al 33,5% di share su La7, un’interruzione indotta da Silvio Berlusconi, il famigerato editto di Sofia, il ritorno in Viale Mazzini, le diatribe con l’azienda Rai prona all’ex Cavaliere. In trent’anni, assieme all’Italia, è cambiata la televisione. Forse di più.
Il 25 maggio 1990, a due anni dal tritolo di Capaci, a Samarcanda c’era il direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia. Senza cravatta e con una cartellina in mano, Santoro intervistava il magistrato Giovanni Falcone. C’era un collegamento esterno. Poi il sottosegretario Silvio Coco, un po’ di pubblico disposto a semicerchio con gambe accavallate, uno spazio vuoto al centro e poco battuto, un ritmo cadenzato e interventi comprensibili. Samarcanda, inventata nel 1987 su Raitre con il direttore del telegiornale Sandro Curzi, introduceva la “piazza” (cioè la società civile) e il conduttore in piedi. Il format incuriosiva la Bbc, che lo voleva comprare. C’era discussione, non l’effetto salotto. Era presto per i timori di Aldo Biscardi – “Non parlate in più di tre o quattro per volta che sennò non si capisce niente!” – che adesso scompigliano i programmi e li rendono molesti. Ai tempi di Samarcanda la seconda serata, fucina di fuoriclasse e già patria di Renzo Arbore, era una risorsa più che un impiccio per gli editori. Dopo trent’anni, che stravolgono le abitudini (e spesso le peggiorano) televisive, Santoro non va in pensione, ma vuole pensionare il modello di programma d’informazione e di dibattito (talk show, è più carino?) che ha intasato i palinsesti e stancato il pubblico: più s’abbassa la domanda e più – strategie masochiste – è aumentata l’offerta. Servizio Pubblico (di cui il Fatto Quotidiano è azionista, ndr) sta per concludere il quarto ciclo, il terzo a La7. All’esordio, Santoro andava in onda sui circuiti locali, da Telecupole a Telecapri. Il risultato più eclatante resta il 33,8% raggiunto con Berlusconi, la media veleggia ancora stabile sopra quella di rete. In questa tv che adora perpetuare battaglie di sopravvivenza – il lunedì Paolo Del Debbio sfida Corrado Formigli, il martedì Massimo Giannini contro Giovanni Floris, il giovedì Nicola Porro insidia Santoro – anche Servizio Pubblico perde spettatori.
Il flusso incessante di trasmissioni fotocopia o brutta copia ha disorientato il pubblico dei canali generalisti. In attesa che gli editori capiscano il momento di inesorabile transizione tecnologica, la gente emigra in massa, si sparpaglia tra le decine di nicchie che il digitale terrestre propone, va sul satellite oppure su Internet. Allora Santoro ha deciso, e l’ha detto e scritto a inizio stagione, che per Servizio Pubblico c’era solo l’ultimo giro. Perché oltre trenta serate da tre ore a settimana, in un territorio di palinsesto affollato e per una tipologia in sovrapproduzione, non sono più sostenibili. Servizio Pubblico ha origini in Versilia, Santoro l’ha presentato lì, da un palco della festa del Fatto. Il pubblico l’ha finanziato con centomila donazioni e l’ha trascinato da Telecupole a La7. Qualche mese prima, a giugno, c’era stata una prova generale a Bologna: 30mila persone in Villa Lazzaroni e diversi milioni a casa per Tutti in piedi. Era il passaggio di consegne da Annozero a Servizio Pubblico. A distanza di quattro anni, Santoro prepara il bis. Chissà verso quale destinazione.
da Il Fatto Quotidiano del 14 maggio 2015