Nel 1966, alla vigilia delle elezioni politiche, si respirava un’aria di attesa di grandi cambiamenti per il nostro paese. Le sinistre avevano conquistato, l’anno precedente alle elezioni amministrative, le più importanti città d’Italia, Napoli, Roma, Milano e si auspicava di compiere un nuovo grande balzo per mandare finalmente la Dc all’opposizione. C’era quasi il timore per un futuro pieno di incognite ed anche di promettenti speranze, lo slogan più riuscito della campagna elettorale era “insieme costruiremo un Paese dieci volte più bello”!
Non andò così, la Dc non perse anche se il Pci raggiunse la percentuale più alta della sua storia, il 34,4 % che rese la sinistra indispensabile per qualsiasi maggioranza parlamentare. Da lì in avanti cominciarono i problemi.
Con mia grande sorpresa e curiosità venni a sapere che Antonio Guarino, professore di Diritto costituzionale all’Università Federico II, con cui avevo svolto l’esame molto severo, si candidava come indipendente nelle liste del partito. Insieme con lui altri illustri intellettuali, esponenti del mondo laico e di quello cattolico progressista, partecipavano in prima persona nelle liste del Pci che rappresentava in quel momento storico il partito più affidabile per realizzare in Italia i cambiamenti che si consideravano indispensabili.
Quello degli indipendenti fu un movimento politico di grandi dimensioni ed enorme importanza, alla base delle storiche vittorie dei referendum sul divorzio e sull’aborto che costituirono passaggi di straordinario avanzamento civile e culturale, di un Paese che sentiva il bisogno di superare l’integralismo ed il collateralismo cattolico della parte più retriva della Dc. Anche il Pci cambiò fisionomia dopo quell’incontro così ricco di significati ed anche di diversità, certo non privo di conflitti e dialettica.
In quella fase il partito di cui ero militante attraversava forse la fase più esaltante della sua storia. Si combinavano positivamente i tratti di un partito comunista a forte impronta marxista, e permeato dalla tradizione leninista del partito di quadri ma già profondamente innovato dalle scelte togliattane che sul solco del pensiero gramsciano e di altri pensatori come Labriola, aveva perseguito e conseguito un’apertura alle democrazia e alle masse, nel segno della conquista dell’egemonia culturale nel paese.
Ai vertici c’era un gruppo dirigente molto forte e qualificato intorno al segretario Enrico Berlinguer, dotato di grande carisma ma certo non da solo come si pretende che siano i leader oggi. Basta ricordare alcuni dei nomi della sua segreteria nel tempo: Ingrao, Tortorella, Paietta, Chiaromonte, Amendola, Iotti, Seroni, Napolitano, tutte personalità di grande valore e prestigio che certo non facevano mancare al segretario il peso delle loro opinioni (consiglio vivamente di leggere la biografia di Francesco Barbagallo, Enrico Berlinguer, Roma, Carocci, 2006).
In quel periodo si creò un “melting pot” di culture, c’erano gli epigoni del sessantotto con la loro spinta al radicale rifiuto dei principi della società borghese, soffiava ancora il vento della decolonizzazione in Africa, la vittoria del Viet Nam sugli Usa, la rivoluzione cubana, la formazione del movimento dei paesi non allineati, con al vertice la Jugoslavia di Tito che prometteva uno sviluppo del socialismo in una maggiore libertà, si può dire oggi utopie fallite? Forse ma non è un caso se proprio in quegli anni la società italiana ha compiuto il suo progresso economico, sociale e civile più importante, poi è cominciato il regresso.
Riporto questi ricordi e suggestioni perché difronte alla notizia delle dimissioni di Barbara Spinelli dal movimento l’Altra Europa non si può non fare un parallelo con quella stagione che abbiamo vissuto e che è stata senz’altro più feconda. Qualunque forze politica si ponga l’obiettivo di incidere nella realtà, per tutelare gli interessi che ritiene di rappresentare, la sinistra quello dei lavoratori e degli sfruttati, non può pensare di realizzarlo senza una politica consapevole e senza gli strumenti che la cultura e le competenze consentono. Ora il paradosso è che Barbara Spinelli ispiratrice e animatrice, insieme ad altri, di un movimento che per la prima volta dopo anni, riunisce intellettuali e forze di diversa ispirazione, in un progetto che avrebbe potuto se ben diretto e organizzato portare ad una rapida crescita, anche sull’onda dei movimenti che in Europa con Syriza e Podemos pongono con successo all’ordine del giorno la necessità di superare le politiche liberiste, è portata ad abbandonare questo movimento perché non riesce più a trovare ragioni di condivisione del suo agire politico.
L’incapacità di confrontarsi sulle differenze reali, il tatticismo esasperato, la predeterminazione di soluzioni organizzative che inibiscono il confronto, il chiudersi in ambiti di gruppi che perseguono uno stucchevole unanimismo omogeneizzante, sempre alla ricerca della propria auto conferma, sono gli ingredienti di una minestra alquanto riscaldata e assai mediocre, sono la malattie delle “piccole sinistre” che purtroppo viviamo oggi.
Penso che un gruppo dirigente all’altezza come ho cercato di rappresentare, non sarebbe giunto a questo punto e non avrebbe consentito che le relazioni anche sul piano personale sprofondassero al livello attuale. La personalizzazione e l’immiserimento della politica hanno toccato il fondo e certo che da qui non si può partire per costruire niente di serio.