Stefano Carlone, barese di 28 anni, insieme a Mirko e Gianmarco a ottobre 2014 ha aperto un negozio di design made in Italy nel cuore della capitale albanese. "Se avessimo voluto fare la stessa cosa in Italia avremmo dovuto investire cinque volte tanto, per ricavarne un quinto. Per non parlare dei tempi"
Mezz’ora di volo o una notte in traghetto. Bari e Tirana sono vicinissime. Lo sa bene Stefano Carlone, 28 anni, architetto barese, che si definisce un “emigrante al contrario”: il porto da cui vent’anni fa scappavano centinaia di albanesi oggi è diventato un approdo sicuro per tanti italiani, soprattutto pugliesi, in cerca di lavoro e di una nuova vita. Dopo la laurea al Politecnico di Bari, decine di curricula inviati e mesi di pratica in studi di ingegneria, Stefano ha deciso di fare le valigie. Destinazione Tirana. Qui, con altri due amici pugliesi, un altro architetto e un designer, ha aperto uno studio di progettazione e un negozio di arredamento: tutto rigorosamente made in Italy. “È una scommessa”, racconta Stefano, “ma in Italia l’avremmo persa in partenza”.
Burocrazia snella e tassazione minima tra i motivi che hanno spinto i ragazzi a partire: “In due giorni abbiamo costituito la società. In tre eravamo attivi. Se avessimo voluto fare la stessa cosa in Italia, avremmo dovuto investire cinque volte tanto, per ricavarne un quinto. Per non parlare dei tempi”. Ad accoglierli, un Paese “in grande crescita, vitale, con tanta voglia di riscatto. E soprattutto innamorato dell’Italia“.
In poco meno di un mese, ad ottobre 2014, Stefano (al centro nella foto), Mirko Dell’Agnello (architetto, a sinistra) e Gianmarco Buongiorno (designer, a destra) hanno messo su il loro negozio di design nel cuore di Tirana. Vendere prodotti made in Italy è il loro biglietto da visita: piatti in vetro di Murano, ceramiche pugliesi – i cosiddetti “pomi” di Grottaglie – lampade e altri complementi d’arredo realizzati nel nostro Paese sono ricercatissimi, soprattutto dalla classe medio alta della capitale. “Gli albanesi sono molto attratti dalla creatività italiana, dalle nostre idee, dal nostro modo di lavorare. Cercano tanto una collaborazione con noi e hanno molta voglia di imparare dalla nostra cultura“, spiega Stefano. “In più quasi tutti parlano o capiscono l’italiano e questo per noi è importante“.
Accanto al negozio, i ragazzi gestiscono anche uno studio di progettazione e consulenza architettonica: “L’obiettivo è quello di offrire soluzioni personalizzate e consigli sull’arredamento di interni, magari proprio a chi entra in negozio solo per comprare un oggetto”. Dalla facoltosa signora anziana del posto al businessman di Dubai di passaggio a Tirana per affari. “Stare sul posto è fondamentale per capire meglio le dinamiche locali e farsi conoscere”, ma i legami con l’Italia non sono interrotti. Di supporto alle più delicate fasi di progettazione e ristrutturazione, c’è, infatti, un quarto collega, architetto con qualche anno di esperienza in più, che dal suo studio in provincia di Bari collabora con i ragazzi e forma, appunto, il “3+1 studio“.
“Se fossi rimasto in Italia mi sarei dovuto accontentare di quello che ora il nostro Paese offre: pagamenti una tantum, tirocini gratis, zero contratti e precariato. Qui invece ho avuto una possibilità e me la sto giocando a pieno”. Certo, all’inizio le difficoltà non sono mancate: “Gestire nello stesso tempo il trasferimento in una città nuova, senza conoscere nessuno, e avviare le varie attività non è stato facile, ma siamo stati aiutati tantissimo dalle persone del posto. Ci hanno dato indicazioni e consigli per evitare i classici errori commessi per inesperienza da chi è appena arrivato in un territorio nuovo. Molto importante è stato l’incontro con l’Unioncamere Puglia qui a Tirana. Da lì abbiamo capito tre cose: dovevamo lanciarci, provare e stare sul posto”. E così è stato.
Il bilancio arriverà a circa un anno e mezzo dall’inizio, ma i primi mesi lasciano ben sperare. “Bisognerà capire se stiamo andando nella direzione giusta o se sarà il caso di cambiare qualcosa”, ipotizza Stefano, “nel peggiore dei casi chiudiamo tutto e torniamo a casa. Alle spalle ci sarà rimasta in ogni caso una esperienza solida, utile per il futuro. E la perdita delle risorse investite non sarà mai quanto quella che avremmo avuto in Italia”.
di Stefania Cicco