“Forse avrei dovuto ascoltare mio nonno quando mi ripeteva: ‘Gira il mondo, ma non uscire mai dall’Italia’”. Eppure vent’anni fa Paolo Scampini ha lasciato la sua valle alpina nel Vercellese per approdare in Vietnam. E da vent’anni vede gli italiani arrivare e andarsene da questo Paese, dai dirigenti degli anni Ottanta “mandati dalle grandi aziende nelle loro filiali” alla grande ondata di occidentali di una decina di anni, quando “buona parte dell’Asia ha iniziato a partecipare al grande banchetto della globalizzazione”.
Un contesto che ha cambiato volto all’emigrazione in Vietnam “attirando una marea di italiani accecati dall’idea di fare soldi facilmente”. Un piccolo esercito di imprenditori che secondo Paolo ha fallito per mancanza di esperienza in Asia. “Molti italiani sono venuti qui con quelle che credevano grandi idee ma poi sono tornati in Italia. In Vietnam non ci sono alcuni servizi perché non c’è richiesta. Si deve essere umili per cambiare vita”. Grande successo, invece, per informatici e progetti turistici destinati alla classe media vietnamita. “Al momento vivono in Vietnam poche centinaia di italiani”. Persiste la presenza di manager di grandi aziende anche se negli ultimi anni sono sempre più “i connazionali che avviano piccole attività nel campo della ristorazione o della vendita al dettaglio”. E questa è stata anche la sua scelta.
Con un passato da operaio in una fabbrica tessile, quando vent’anni fa il 52enne piemontese ha deciso di vivere in Vietnam, parenti e amici gli avevano dato del folle. “Per molti il nome ‘Vietnam’ non era sinonimo di Paese ma di una guerra”, racconta Paolo, mentre ricorda quando immaginava la sua nuova casa come una nuova frontiera da scoprire, anche perché negli anni del suo trasferimento il presidente americano Bill Clinton aveva revocare l’embargo sul Paese. “In Italia non ero realizzato: lavoravo troppo per comprare beni materiali che potessero mitigare la mia insofferenza quotidiana”. Così arriva la partenza e l’apertura di un ristorante italiano, un business che i primi tempi stenta a decollare. Poi, con gli anni, da uno i ristoranti sono diventati quattro, mentre il Bel Paese diventa sempre più una “splendida destinazione da visitare una volta l’anno per le vacanze”.
Sposato con una donna vietnamita da 15 anni, l’ex operaio nutre ancora dei dubbi sulla “totale integrazione” di un occidentale in Asia. “Basti pensare alla grammatica: in Vietnam ci sono un’infinità di pronomi personali in base al rapporto tra i soggetti in questione”. Culture troppo diverse per capirsi fino in fondo. “Ma forse è proprio questo il bello: l’Oriente, col tempo, ti cresce dentro, fino al punto da non riuscire più a immaginarti altrove”, dice Paolo, che in Italia, si descrive come un “disadattato sociale”.
Tanto che della “litigiosa patria” non gli manca nulla. I ricordi del Bel Paese sono associati ai “freddi risvegli all’alba” di quando lavorava in fabbrica “aspettando che le ore passassero e i weekend arrivassero presto”. Trasferirsi in Vietnam, quindi, cercando una maggiore qualità della vita. “Traffico disordinato e città rumorose” sono un giusto prezzo da pagare per avere “il tempo di scrivere, una vita semplice e l’assenza di burocrazia”. E il pensiero corre a immaginare l’esistenza che non ha voluto vivere in Italia, dove “certamente, per avere la stessa vita agevole che ho ora avrei dovuto lavorare di più e fare più sacrifici. Con il risultato di rendere le mie giornate tutt’altro che piacevoli”.
Molti turisti italiani in questi vent’anni di vita vietnamita si sono entusiasmati per la sua scelta di trasferirsi in Asia. Ma a essere sinceri “coraggiosi sono coloro che in Italia sono disoccupati e fanno enormi sacrifici per mantenere la famiglia oppure chi ogni mattina va in fabbrica o in ufficio per un misero salario”. Per Paolo la forza è di chi resta, “che resiste nonostante le difficoltà” invece di “abbandonarsi alla fuga, come ho fatto io”. Guardando l’Italia da un altro continente cresce la preoccupazione perché “in tanti scappano per mancanza prospettive” facendo una scelta che invece dovrebbe essere guidata “dal desiderio di conoscere nuove culture e mettersi in gioco”. Come ha fatto lui vent’anni fa. Ma ogni paragone è azzardato. “Appartengo a quella strana emigrazione degli anni Ottanta-Novanta, dettata più dal troppo lavoro che dalla mancanza dello stesso. Oggi l’Italia è un Pase completamente diverso”.