“Che cosa hai sognato stanotte?”, domanda sempre mio marito quando ci alziamo la mattina. È un piccolo rito. Come se tutti noi dovessimo raccontare viaggi misteriosi e solitari che abbiamo compiuto di notte.
Ognuno ha storie diverse da raccontare, a seconda dell’età. Mario, che ha appena quattro anni, abbozza qualche immagine, quasi dei disegni. A volte hai quasi l’impressione che si senta in dovere di dire qualcosa per essere all’altezza dei fratelli. Copia i loro sogni del giorno prima. Nino, sette anni, è l’ingegnere di famiglia, sotto le palpebre chiuse comincia a costruire navi fantastiche. Aerei capaci di arrivare “in cima al cielo”. Giovanni, nove anni, nella notte viaggia. Si gode quell’autonomia che nella vita di ogni giorno gli è ancora preclusa.
Ma quando tocca a noi, a me e mio marito, quanta fatica…Spesso inventiamo, si vede. Tacciamo i nostri veri sogni. No, non c’è niente di particolarmente inconfessabile. “Il fatto – mi ha detto oggi mio marito – è che con gli anni ho smesso di fare bei sogni. Mi ricordo che, da ragazzo, quasi aspettavo il sonno con curiosità. Ero pronto a godermi i viaggi che la fantasia mi offriva. All’alba, addirittura, quando i sogni si facevano più leggeri, mi accorgevo di poter intervenire per modificarli, per modellarli secondo i miei desideri. Poi era arrivata l’adolescenza, e i sogni ci regalavano quegli incontri che di giorno riuscivamo soltanto a desiderare. Che strana, incomunicabile dolcezza ci prendeva quando a scuola ci trovavamo davanti le ragazze con cui in sogno avevamo condiviso un’improvvisa intimità, un bacio”.
Adesso cadiamo in un sonno pesante, quasi malato. Spesso vuoto. I sogni, quando arrivano, sono incubi.
Emergono di notte il timore che la vita cominci a perdere i suoi pezzi; l’ansia di trattenere tutto. Ecco i figli che si ammalano, i genitori che se ne vanno. Poi gli amici, il lavoro…Dice il grande psichiatra Romolo Rossi: “A un tratto ci accorgiamo che la vita è destinata a diventare una continua perdita”.
Questa sera, prima di scrivervi, mi sono ritrovata a guardare i miei figli che dormivano. Le guance rosse, tiepide, gli occhi che correvano sotto le palpebre. Sognavano. Beati voi, ho pensato. Quasi li invidiavo. Ma invidiare i propri figli non è possibile.
il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2015