Una manina ha fatto arrivare al M5S le carte segretate sulla nuova bretella. Da cui emerge come il piano per giustificarla si basa su dati fantasiosi
Secondo la vulgata renziana, le grandi infrastrutture di cui l’Italia avrebbe bisogno non si costruiscono per colpa della burocrazia. Eppure, se il nuovo ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, avesse la pazienza di leggersi il corposo dossier del cosiddetto “passante di Ancona”, scoprirebbe che a volte accade il contrario. Capita, infatti, che non per colpa ma per merito di qualche burocrate onesto, si riesca a bloccare qualche assalto alle casse dello Stato. Sul passante di Ancona, l’Autorità Anticorruzione di Raffaele Cantone ha aperto un’inchiesta, l’operazione appare destinata a scivolare nell’oblio. E i contribuenti dovranno dire grazie al burocrate ignoto funzionario che in un sussulto di civismo ha recapitato in busta anonima alla deputata M5S Donatella Agostinelli documenti riservati del ministero assai istruttivi. Agostinelli ha tempestato di interrogazioni l’allora ministro Maurizio Lupi, che si è ben guardato dal rispondere. Però il trambusto, a cui ha contribuito l’ex deputato Ds Eugenio Duca, oggi consigliere comunale con “Sinistra per Ancona”, ha avuto i suoi effetti. Prima uno scontro durissimo tra i due ministeri dell’Economia e delle Infrastrutture. Poi l’intervento di Cantone. Infine i general-contractor della bretella autostradale (Salini-Impregilo, Astaldi, Pizzarotti e Itinera del gruppo Gavio, una all star del partito del cemento) costretti ad ammettere tra le righe che, a ben guardare, forse quel project-financing non è più sostenibile.
Il caso campione che il nuovo ministro dovrebbe studiare
Il burocrate ignoto ha un secondo merito: per la prima volta possiamo guardare dentro la scatola nera di un project-financing. Il passante di Ancona ha tutti i requisiti per diventare il caso campione che Delrio dovrebbe appunto studiarsi per capire perché in Italia le grandi opere costano il doppio che altrove, e perché la favola del “finanziamento tutto privato” finisce ogni volta con il contribuente che paga.
Si trattava di collegare meglio il porto di Ancona con la autostrada A14, la Bologna-Bari-Taranto. L’Anas inserisce l’opera nei suoi piani dal 2003. Nel 2007 chiede ai costruttori di farsi avanti con proposte di project-financing: il privato costruisce l’opera a sua spese ottenendo in cambio la concessione per 30-35 anni durante i quali, incassando i pedaggi, si ripagherà l’investimento. Nel 2008 viene individuato il concessionario, la società Passante Dorico, guidata da Salini-Impregilo con il 47 per cento. Il presidente di Passante Dorico si chiama Michele Longo. Conosce la materia: è presidente anche di Cociv (costruttore del terzo valico ferroviario Genova-Tortona per 6,2 miliardi), del consorzio CavToMi (costruttore dell’alta velocità Torino-Milano), della società costruttrice dell’autostrada Pedelombarda, del Cavet (alta velocità Firenze-Bologna), di Iricav Due (alta velocità Verona-Padova). Il biglietto da visita del multi-presidente è significativo: quasi tutte le grandi opere di cui si occupa sono partite come project-financing e arrivate al traguardo a spese di Pantalone.
La magia del passante di Ancona è nei numeri. Si tratta di costruire una bretella autostradale di 10,7 chilometri che costa, a prezzi 2005, 480 milioni: la statistica ci dice che il costo finale potrebbe arrivare al triplo. Il piano economico e finanziario (Pef), che dimostra la sostenibilità dell’opera ed è di norma segretissimo, è pieno di ottimismo. Si prevede che nel primo anno di traffico i ricavi da traffico siano 47 milioni, cioè 4,4 milioni a chilometro, quando la rete autostradale italiana incassa in media poco più di un milione a chilometro. Come si fa a sostenerlo? Prevedendo un traffico abnorme. A regime, si legge nel piano non a caso segretato, dovrebbero passare sulla bretella 16 milioni di veicoli all’anno, destinati a diventare a fine concessione, nel 2045, 22 milioni: un veicolo ogni tre secondi per ciascun senso di marcia, per 24 ore, 365 giorni all’anno, una trentina d’anni. Non solo: 22 milioni è quasi il doppio dei veicoli che sono entrati o usciti dai due caselli di Ancona della A14 nel 2013: E poi, quanti di quelli che escono a Ancona Nord o Ancona Sud vanno al porto?
Comunque l’operazione viene presentata come un affarone. Si investono 480 milioni tutti privati, si incassano in 30 anni 2,4 miliairdi di pedaggio, si danno 400 milioni di interessi alle banche che presteranno i 480 milioni necessari, e se ne esce con un guadagno pulito del 7,83% all’anno sul capitale investito – oltre ai profitti fatti con la costruzione. È tutto molto serio. Ci sono anche le banche “asseveratrici”, un altra formazione all-star: Mediobanca, Unicredit, Intesa Sanpaolo, Bnl-Paribas e Royal Bank of Scotland “asseverano il piano economico-finanziario e ne attestano la coerenza nel suo complesso”. Poi un’incredibile postilla, nella solenne lettera del 15 novembre 2007: “Le banche si sono basate sulle ipotesi, sui dati e sulla documentazione relativa al progetto forniti dall’Ati (i costruttori, n.d.r.), senza effettuare alcuna verifica indipendente al riguardo”. E così il project-financing. Uno può scrivere che sulla bretella transiteranno 500 auto al secondo pagando 10 euro ciascuna e portando ricavi per 5mila euro al secondo. Cinque grandi banche uniscono gli sforzi e asseverano ciò che anche un bambino di otto anni potrebbe asseverare: che 500 per 10 fa 5mila. E lo sottolineano: “L’Ati si assume pertanto ogni responsabilità circa la veridicità dei dati e delle ipotesi”.
Il signor Coletta e il concetto di “legittima conoscibilità”
Perché tanto spensierato ottimismo? Perché rimane sottinteso che l’importante è firmare un contratto. Se poi le cose andranno male e il traffico non sarà quello previsto, si chiederà allo Stato di tappare il buco, esattamente come sta accadendo in queste settimane con la Brebemi. L’importante è che nella convenzione ci sia la clausoletta benedetta che il burocrate, strizzando l’occhio al politico, firma e tiene segreta, per rivelarcela solo anni dopo, quando ci chiamerà a pagare il conto.
Nel caso delle autostrade il burocrate è sempre lo stesso, si chiama Mauro Coletta e da dieci anni guida la Struttura di vigilanza sulle concessionarie autostradali. È lui che il 18 dicembre 2013 firma con Longo la “convenzione di concessione” che il burocrate ignoto recapiterà alla deputata Agostinelli. E qui ci vorrebbe Alberto Sordi. Agostinelli manda il contratto al consigliere comunale M5S Andrea Quattrini pregandolo di girarlo al sindaco di Ancona. L’assessore alla Viabilità Ida Simonella scrive a Coletta, chiedendogli se quella convenzione è “conforme all’originale”, e invitandolo addirittura a aprire un’inchiesta “verificando in particolare la ritualità e ufficialità del rilascio della medesima”. Se l’assessore comunale di Ancona che vigila sulle ritualità del ministero Infrastrutture appare surreale, la risposta di Coletta è all’altezza: la convenzione deve essere ancora controfirmata dal ministro dell’Economia e registrata dalla Corte dei Conti, e “ciò ne esclude, pertanto, la legittima conoscibilità”. La reazione del Comune di Ancona a questa lettera è incredibile. Il segretario generale avvocato Giuseppina Cruso scrive a Quattrini citando il concetto di “legittima conoscibilità”, come se Coletta detenesse le tavole della legge, e intima pertanto al consigliere M5S di “chiarire le modalità di acquisizione di detto atto… entro e non oltre sette giorni”.
Tesoro e Ragioneria all’attacco delle Infrastrutture
Questo non è solo colore, è nervosismo autentico. In quella convenzione, affetta secondo Coletta da carenza di “legittima conoscibilità”, ci sono delle stranezze. La deputata Agostinelli le segnala al Dipartimento del Tesoro e alla Ragioneria dello Stato. Dopo una serie di riunioni, il Tesoro mette nero su bianco che in quella convenzione ci sono della “criticità”. In burocratese “criticità” significa “porcate”. E infatti basta leggere. Per esempio, se si firma un contratto a fine 2013 sulla base di un Pef datato 2007, “ne consegue che il progetto con ogni probabilità non risulterebbe finanziabile”. E rivedere il Pef dopo la firma della convenzione “potrebbe determinare oneri, allo stato non quantificabili, per la finanza pubblica”. Sono i vertici del ministero dell’Economia, non i No-Tav o i grillini, a mettere sotto accusa le clausolette produttrici di penali a carico dello Stato. E quindi “l’art. 11.8, non presente nell’originaria proposta del promotore, sembra addirittura limitare la facoltà del Concedente (lo Stato, n.d.r.) di non approvare il progetto definitivo”. Val la pena di sottolinearlo nuovamente: si tratta di un contratto che mette a rischio denaro pubblico per i prossimi 30 anni. Coletta, che lo ha firmato, così lo definisce: “Si tratta di un atto che disciplina i rapporti, anche sotto i profili economico-finanziari tra lo Stato e una società privata, e pertanto non può essere divulgato a terzi”. Cose loro?
Per fortuna stavolta il pericolo di fare la seconda Brebemi sembra sventato. Il ministero dell’Economia ha imposto e dettato un atto integrativo alla convenzione, che Coletta e Longo hanno firmato il 2 settembre 2014. La Passante Dorico spa dovrà rifare il Pef e proporlo al Cipe insieme al progetto definitivo. Se il governo non lo riterrà convincente i signori Salini-Impregilo, Astaldi, Pizzarotti e Gavio non porteranno a casa un solo euro.
Subito il vice ministro Riccardo Nencini si è precipitato ad Ancona per rassicurare i maggiorenti della sezione locale del partito del cemento: il Pef del passante, ha detto, “criticamente tiene”, riferendosi all’ideona degli sgravi fiscali, grazie ai quali i contribuenti potrebbero pagare senza accorgersene la metà dell’opera, se non fosse che la legge li vieta nel caso specifico. Mentre già si parlava di una “normetta” nascosta in qualche decreto per far passare la porcata, sono arrivati l’arresto di Ercole Incalza, il vero ministro, e le dimissioni di Lupi. Nencini e il passante di Ancona sono rimasti orfani.
Morale della storia. Se il burocrate ignoto non avesse fatto uscire la segrete carte dal ministero, il passante di Ancona sarebbe andato per la sua strada, con penali a spiovere e costi fuori controllo. Anziché impegolarsi nella riforma del codice degli appalti, che sarà comunque scritta da costruttori e burocrati felloni, Delrio avrebbe un’arma micidiale per liberarci delle cattive abitudini del suo ministero: una legge di due righe che dell’eccezione di Ancona facesse una regola: “Il burocrate che firma lettere, atti e contratti per opere pubbliche da centinaia di milioni o miliardi, è tenuto a pubblicarli immediatamente”. Non è difficile, basta avere la coscienza a posto.
Twitter@giorgiomeletti
da Il Fatto Quotidiano del 13 maggio 2015