Il Vaticano di Papa Bergoglio ha deciso di riconoscere la Palestina come Stato sovrano: lo ha fatto siglando un accordo di collaborazione e riconoscimento reciproco che, a differenza dei precedenti, non fa riferimento all’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), ma menziona ufficialmente come controparte lo Stato di Palestina nella persona del suo Presidente Mahmoud Abbas.
Di per sé, l’accordo Vaticano-Palestina non presenta tratti particolarmente innovativi: esso ha lo scopo, così come i precedenti, di favorire la vita e l’attività della Chiesa cattolica in Cisgiordania (a Gaza è praticamente assente, rappresentando i cristiani di tutte le confessioni meno dell’1% della popolazione) e di promuovere la tolleranza religiosa, ed in particolare di difendere la libertà di fede e di praticare la propria religione della piccola comunità araba cattolica, in un momento particolarmente difficile nei rapporti tra cristiani e musulmani in Medio Oriente.
Parti più prosaiche dell’accordo riguardano anche il regime fiscale e la tutela dei luoghi di culto in Palestina, ovvero un aggiornamento dell’Accordo sulla personalità giuridica delle istituzioni cattoliche siglato nel 1997 e un avanzamento dell’accordo economico in corso di negoziazione da oltre 16 anni e ancora non finalizzato. Il Segretario di Stato vaticano, Monsignor Camilleri, smentisce anche il fatto che l’accordo possa costituire un precedente utile per negoziati con altri Stati arabi e musulmani della regione, con l’obiettivo di tutelare le minoranze cristiane ivi residenti: non vi sono, infatti, negoziati attualmente in corso con altri governi musulmani e quello con la Palestina rappresenterebbe un caso particolare, in ragione del ruolo eccezionale “della Chiesa nella terra dove è nato il cristianesimo”.
Perché, dunque, un accordo di ordinaria amministrazione -che in sé non ha nulla di rivoluzionario, ma anzi si inserisce in un cammino avviatosi dal 2012, quando il Vaticano appoggiò la campagna per il riconoscimento della Palestina come Stato osservatore alle Nazioni Unite e iniziò ad appellare l’ANP “Stato” nei suoi documenti ufficiali- è stato recepito in modo tanto ostile da Israele e percepito dalla comunità palestinese come un valido appoggio diplomatico, che rompe con l’apatia fino ad oggi manifestata dall’Unione Europea e dal difficile cammino del riconoscimento dello Stato palestinese dai Parlamenti nazionali in Europa?
Innanzitutto per il valore simbolico di un riconoscimento tributato da un’istituzione che, ancora oggi, rappresenta un miliardo e duecento milioni di fedeli cattolici nel mondo e le cui posizioni, quindi, riecheggiano ai quattro lati del globo fornendo a molti fedeli, compresi quelli che si disinteressano completamente del conflitto israelo-palestinese, una valida “bussola” su come orientare le proprie opinioni politiche o superficiali simpatie. In più lo fa in un momento in cui l’ANP conduce una battaglia diplomatica per il riconoscimento dello Stato palestinese che non incontra il favore degli Stati Uniti e si imbatte nell’ostilità di alcuni Parlamenti europei, andando a polarizzare il dibattito interno (come il caso dell’Italia), mostrandosi più coraggioso e progressista sul tema di molti governi nazionali.
Naturale, dunque, che l’attuale governo israeliano percepisca la mossa vaticana come un attentato alla propria sovranità e un gesto non motivato dalla ricerca di pace, ma dall’attribuzione della responsabilità dell’attuale stallo nei negoziati ad Israele. E questo sullo sfondo di un clima già teso – in cui molti in Israele e Palestina pensano che gli Accordi di Oslo siano ormai “lettera morta” e l’attuale governo israeliano appena uscito dalle urne non inserisce la questione dei “due Stati” nemmeno più nell’agenda politica- e di una storia vaticana controversa nei confronti dello Stato sionista.
Il Vaticano, infatti, ha riconosciuto lo Stato d’Israele soltanto nel 1993 e in questo mancato riconoscimento dello Stato sionista Israele ha letto una tradizione di antisemitismo manifesta e il desiderio vaticano di minimizzare la creazione di uno Stato sovrano ebraico per la prima volta dopo duemila anni.
Tuttavia, al di là delle belle parole e degli intenti politici vaticani, il riconoscimento dello Stato palestinese si iscrive in una campagna palestinese che ha come unico scopo l’isolamento diplomatico di Israele, ma non il concreto avanzamento dei diritti dei palestinesi, e nemmeno di quelli cristiani tra loro. Molti, infatti, nella comunità cristiana di Gerusalemme est e della Città Vecchia, ridotta ormai a 1.500 persone, lamentano il fatto che non esistano orizzonti di sviluppo positivo e che nessun potere forte –ovvero gli Stati Uniti e i governi europei, in primis, ma nemmeno sostanzialmente il Vaticano- intenda schierarsi apertamente contro Israele, invocando sanzioni o un boicottaggio commerciale del Paese ebraico.
In assenza di tali misure, la comunità cristiana palestinese continuerà ad assottigliarsi e preferire la via dell’emigrazione e questo non farà che minare la solidarietà nazionale interna tra musulmani e cristiani, un tempo forte nell’OLP, ma oggi logorata dal clima di pessimismo generale prevalente nella regione e dal tramonto del programma nazionalista palestinese promosso da Arafat ed incarnato dall’OLP.
In questo scenario globalmente contraddistinto dall’inerzia e dal trascinarsi sterile di scelte diplomatiche che scarso o nullo impatto hanno sulla vita quotidiana delle persone, il riconoscimento vaticano, più che coraggioso, appare quasi tardivo gli occhi delle comunità cattoliche di Palestina e Israele – in tutto 210.0000 fedeli-, che si rendono perfettamente conto di non esserne le principali beneficiarie.