“La Biennale Arte è un bene che va tutelato, conservato e protetto. Certo, va innovato di continuo, ma rispettato. E’ un modello espositivo osservato dal mondo intero”. Achille Bonito Oliva promuove con voti alti la 56esima Biennale d’Arte di Venezia, curata da Okwui Enwezor, inaugurata il 9 maggio scorso e aperta al pubblico fino al 22 novembre 2015. “Poteva sembrare una Biennale per via orale, un’interminabile giaculatoria sussurrata da un manipolo di catecumeni che leggono per tutta la durata dell’esposizione il Capitale di Marx, libro peraltro conosciuto da tutti ma letto da pochi come Alla ricerca del tempo perduto di Proust o l’Ulisse di Joyce– spiega al FQMagazine Bonito Oliva. “In realtà il giudizio sull’intera esposizione non si può restringere a questa sorta di estremismo verbale, perché la Biennale è frutto di un progetto di un direttore che ha reinterpretato la storia dell’arte: non una pura operazione di documentazione del nuovo, neutrale, catastale e notarile, ma che corrisponde ad una salda personalità curatoriale, tra l’altro in linea con il mio pensiero teorico e la mia strategia culturale, con quello che ho fatto dagli anni settanta fino a oggi, e riassunta nella Biennale numero 45 da me diretta nel 1993 che si chiamava ‘Punti cardinali dell’arte’ ”.
Quali opere l’hanno colpita e quali no della Biennale 56?
In questo percorso espositivo di possibili futuri dell’arte s’inciampa anche in opere di qualità che appartengono a tutte le generazioni, dal tedesco George Baselitz ai più giovani artisti: tutti appartengono, come diceva Picasso, alla pratica di “un’arte puntata sul mondo”. Dunque non ci si astrae, anzi ci si confronta con il nostro presente per cercare come di superare lo sbarramento di un tempo bloccato.
Nei padiglioni nazionali dei Giardini cosa salva?
Quello americano, il giapponese, il coreano, e l’australiano. Quello uruguaiano di cui in molto parlano positivamente è sofisticato e concettuale.
Il Padiglione Italia dell’Arsenale?
Mi è piaciuto molto l’armadio di Marzia Migliora, poi la sala di Vanessa Beecroft. Classico il lavoro di Jannis Kounellis. L’idea che la matrice dell’arte italiana è la memoria, è un dato acquisito come giudizio e premessa in tutti libri storia dell’arte.
Il linguaggio della pittura sempre quasi scomparso soprattutto nelle nuove generazioni…
L’arte si esprime in molteplici linguaggi. Non farei funerali, non mi dichiarerei in lutto per nessuno strumento specifico (installazione, multimedialità, scultura, video, ecc…). Va però notato senza dubbio che l’arte è diventata multietnica, transnazionale, multimediale. Ho attraversato la Biennale più con un senso familiarità che di sorpresa. Del resto avevo già bucato la resistenza territoriale in certi padiglioni con la mia Biennale del ‘93. Oramai siamo in pieno sconfinamento, ci sono frontiere liquide.
Ha ancora un senso forte, allora, la divisione per padiglioni nazionali?
Il modello fu preso a prestito nel 1893 dall’Expo universale. Oggi certo può rimanere la location, il senso di ospitalità e identità, ma oramai è sicuro che l’arte non è più né local, né global, ma glocal: qualcosa che si esprime attraverso linguaggi universali con cadenza legata al territorio antropologico dell’artista.
Non le andrebbe più di dirigere Biennale se glielo chiedessero?
Sono come Paganini, non ripeto. Ho già fatto Biennali e Triennali, i miei libri sono stati tradotti in Cina, ora lavoro solo a progetti duratori come l’enciclopedia Portatori del tempo con Electa o un altro progetto duraturo, non effimero come Le Stazioni dell’Arte a Napoli dove nell’arco di 12 anni si sono costruito le linee della metro chiamando grandi archi-star. Ho scelto gli artisti in sintonia con la tipologia architettonica. Ci sono ormai 30 stazioni, 160 opere d’artisti da tutto il mondo e di ogni generazioni. Ho creato un “museo obbligatorio” perché i viaggiatori sono costretti a familiarizzare con le grandi opere che scorrono lungo corridoi delle profondità della città. Infine c’è il master alla Luiss dove insegno ai ragazzi.
Ma non aveva affermato che le giovani generazioni le facevano “abbastanza schifo”?
“No, mai detto. Non uso queste espressioni. Forse ho detto un’altra cosa. Nell’ultima generazione, in ogni ambito c’è una sorta di demotivazione, anche esistenziale, una mancanza di energia, di nerbo, legata anche alla crisi nel nostro tempo, ad una postmodernità che costringe l’uomo al corpo a corpo senza prospettive di un futuro, e con gli occhiali delle ideologie andati in frantumi. Una situazione che non permette nemmeno una moralità singolare. Per cui l’arte potrebbe assumere funzione di resistenza e responsabilità, potrebbe essere per tutta l’umanità un segnale chiaro. Potrebbe essere un’opportunità quella di utilizzare la crisi per produrre un’etica nuova, dove non c’è più superbia delle avanguardie storiche che pensava di trasformare mondo con l’arte, ma l’indicazione di un modello comportamentale”.
Oramai per i musei privati l’apporto economico della fondazioni è diventato cruciale…
“Trovo che le fondazioni private vanno rispettate, producono investimento, sviluppano lavoro e sforzano il collezionista a uscire dell’egoismo domestico. E’ una strada buona. Bisogna trovare comunque un equilibrio tra pubblico e privato. Io lo adottai fin dalla mia prima mostra Vitalità del negativo nel 1970 con capitali privati. Creai scandalo allora nei critici marxisti, di quelli che scrivevano su Manifesto e Unità, sospettando che le mie mostre erano pagate dalla Cia”.
Alcuni artisti contemporanei sostengono che mai si è venduto come oggi con la crisi…
“La crisi economica riguarda il collezionismo medio. Il grande collezionismo non ha avuto contraccolpi. La crisi deriva dal greco significa selezione, e quindi l’arte nel momento in cui si autoseleziona, o quando il critico svolge seriamente il suo ruolo non di angelo custode ma di angelo sterminatore, ecco che restano le cose migliori che hanno riconoscibilità”.
Lei si è impegnato politicamente nel recente passato con la Sinistra Arcobaleno?”
“Votavo Rifondazione Comunista, ero amico di Bertinotti e Vendola”.
Esistono ancora politici vicino all’arte e alla cultura, o perlomeno che ne si sforzano a comprenderne il significato?
“Fino agli anni novanta c’è stato dialogo tra arte e politica: curiosità e disponibilità, poi c’è stata una caduta di ideali”.
Ce lo vede Renzi a fare un giro alla Biennale?
“Guardi, Renzi ha inaugurato la stazione dell’arte aperta a Napoli in piazza Municipio, costruita dall’architetto portoghese Alvaro Siza. Renzi non deve mica essere un tuttologo. Se lei parla con alcuni artisti non vanno mai al cinema, a teatro, ai concerti, pure loro si chiudono nel loro specifico. Non c’è bisogno di fargli l’esame a Renzi. Poi certo quando nel recente passato ci sono state grandi battaglie politiche c’era un sodalizio tra intellettuali e politici, adesso questo sistema si è perso”.
Ci sono stati politici in Italia che hanno capito qualcosa di arte contemporanea?
“Sandro Pertini l’amava molto, conosceva bene Emilio Vedova. Bettino Craxi pure. Ricordo che creò dei collage quando tornò dal Cile appena dopo il colpo di stato di Pinochet, usò giornali cileni si era portato a casa. Bertinotti conosce tanti artisti. Veltroni, anche lui. Bassolino a Napoli è stato quello che ha utilizzato l’arte e la cultura per dare un segnale rinnovamento in una città in cui era difficile lavorare sul cambiamento”.
C’è qualcosa che la fa incazzare della politica oggi?
“Le incazzature sono di superficie e circostanza, non significano nulla. E’ finito il momento in cui bastava sottoscrivere una lettera aperta, un manifesto da intellettuali alternativi. Bisogna invece strutturare delle proposte alternative. Non puntare solo allo sciopero, come fanno i sindacati. Bisogna fare tutti uno sforzo in più, essere propositivi, altrimenti si crea una conservazione, anche a sinistra, che è negativa”.
Lei vota Pd?
“Certo! Ma come si permette?”
Dicono che non c’è più la sinistra…
“E che vuol dire? In quello schieramento la sinistra c’è. E poi non potrei mai votare scheda bianca o non votare. Sono sempre andato a votare. Non si protesta con l’assenza”.