Se hai trent’anni, qui, conosci solo la guerra. E il resto del mondo, qualsiasi cosa, ti sembra di una bellezza sconfinata. Ali Saheb a ottobre è stato a Roma per una conferenza. Che hai visto di bello?, gli chiedo. Tra il Colosseo e il Vaticano, mi dice: “la metropolitana”.
Dopo due guerre, oltre un milione di morti, e svariati miliardi di dollari spesi nell’esportazione di libertà e democrazia, Baghdad è una città così pericolosa che agli occidentali è vietato girare soli. Gli iracheni passano a trovarti in hotel. E quando gli compari davanti pronta, vestita di tutto punto, quasi non capiscono. Ma davvero?, ti guardano sorpresi: davvero te la senti di uscire? I pochi occidentali che arrivano, rimangono barricati in stanza. E lontano dalla finestra: dovessero i vetri esploderti addosso alla prossima autobomba nei paraggi.
Gli stranieri, in realtà, non dovrebbero neppure stare in città, ma nella Zona Verde. Che è un’area di 10 chilometri quadrati in pieno centro, lungo il Tigri, in cui un tempo Saddam Hussein abitava insieme ai principali notabili del Ba’ath – e insieme ai leoni di suo figlio Uday, che invece che con le crocchette cenavano con i nemici del regime. Oggi la Zona Verde ospita le ambasciate, a partire da quella americana, che con i suoi 15mila dipendenti è la più grande al mondo. Ospita i ministeri, le società di consulenza. I giornalisti. Ospita tutti gli stranieri: un posto grigio, anonimo: un po’ fortezza medievale un po’ caserma, un po’ centro commerciale, un po’ Club Med, con i suoi caffè, le sue piscine, i suoi palestrati in infradito: un po’ periferia borghese, con le sue casette in mattoni, i suoi vialetti, i lampioni: un posto che sa di tutto, tranne che di Iraq – un posto di prato all’inglese, che è come piantare banani in Svezia.
E dice molto di quanto capiamo di Medio Oriente.
Fuori dalla Zona Verde si gira su fuoristrada blindati, uno davanti, uno dietro, e tre auto civetta. I due che mi scortano in tutto hanno vissuto qui sei anni, veterani della seconda guerra del Golfo e di un paio di altre guerre. “Questa era la piazza con la statua di Saddam”, mi indicano da dietro al finestrino. “Questo era l’hotel più bombardato”. “Qui, una volta, ho trovato una mano. Così, a terra”. “Qui è stata la battaglia peggiore”, raccontano. “Qui ero di pattuglia quando a Fallujah hanno impiccato al ponte i quattro della Halliburton“. “Alla tua destra, vedi la fila di palme?, ci sparavano da lì, questi bastardi”, “Qui saltavamo tutti sulle mine”, “Qui è morto uno dei miei più cari amici. Tranciato in due”, “Qui, cazzo, per poco non mi centrava un RPG”, “Ma in queste strade gli abbiamo spezzato le ossa casa a casa” – raccontano: così, come raccontano i militari, con quell’adrenalina che non va più via: come se questa guerra, in fondo, sia stata l’avventura della loro vita. E anche una formidabile opportunità di guadagno. Lungo la strada che collega la Zona Verde all’aeroporto, mi indicano i cespugli tra le due carreggiate. “Questa è l’unica strada che abbiamo sistemato. Perché è l’unica strada percorsa dagli stranieri. Poi, dietro quel muro, inizia l’Africa”, mi dicono. “Il muro non è una barriera antibomba, è una barriera antirealtà. Nasconde il disastro che abbiamo combinato. Si sono arricchiti tutti in Iraq, tranne gli iracheni”, mi dicono. E ridono: mentre l’autista, che è di qui, guida. In silenzio. E deve avere trent’anni anche lui, anche lui deve avere visto solo la guerra, nella sua vita: doveva essere un ragazzino – e chissà cosa ricorda, invece, della guerra, di questi stessi luoghi, di questi stesse battaglie, chissà cosa pensa, di questa stessa povertà, mentre attraversiamo un checkpoint dopo l’altro, una perquisizione dopo l’altra, annusati da questi cani antisplosivo: identici a quelli di Abu Ghraib.
Ma guarda dritto la strada, e tace. Mentre noi stranieri discutiamo di Iraq, di Siria. Di sunniti e di sciiti. Mentre decidiamo di questi paesi. Mentre piantiamo prati all’inglese. Gli iracheni stanno lì, in un angolo. Sono i nostri autisti, i nostri traduttori e servi e camerieri.
Ascoltano, in silenzio. Aspettano.
A testa bassa.
Le restrizioni di movimento, le misure di sicurezza, qui, sono rigorose. La maggioranza di noi non si avventura mai fuori dalla Zona Verde. E comunque, anche a provarci, anche a girarlo, il nostro Iraq non è che scorci di paesaggio spiati da dietro un finestrino, mozziconi di frasi orecchiate da quei pochi iracheni che parlano l’inglese.
E questa è l’immagine dell’Iraq su cui fondiamo le nostre politiche.
Le nostre guerre.
Questo Iraq astratto, etereo, questo Iraq di mappe, invece che di luoghi. Dove sei?, mi domanda in serata un messaggio. “Io sono 30 gradi a ovest, posso passarti a prendere”.