Nel 2006 i 10 italiani più ricchi possedevano una ricchezza pari a quella dei tre milioni di italiani più poveri. Nel 2013, sempre in Italia, le 10 famiglie più ricche concentravano nelle loro mani una ricchezza pari a quella del 30% più povero della popolazione, corrispondente a circa 18 milioni di persone. Nel 2016, a livello mondiale, la ricchezza del più ricco 1% della popolazione supererà per la prima volta quella del restante 99%.
Bene: se si accetta il principio della responsabilità diretta, io mi schiero allora senza dubbio con quell’uno percento.
Al di là della provocazione, i Del Vecchio, i Berlusconi e gli Armani (per restare in Italia), o i Bill Gates, i Carlos Slim e i Warren Buffett (per guardare al mondo intero) stanno infatti solo facendo…il loro dovere. Stanno cioè applicando alla lettera, e meglio di chiunque altro, le leggi della dottrina economicida chiamata capitalismo, alle cui prescrizioni aderisce di fatto – quasi sempre senza rendersene conto – anche il restante 99% della popolazione.
Di chi è dunque la responsabilità, se ammettiamo nell’uomo ragionevolezza e libero arbitrio? Di quell’uno percento spesso disposto a vendere la propria madre pur di accumulare un dollaro in più? O di tutti gli altri che – ipnotizzati e asserviti al modello di sviluppo economico fondato sul monoteismo della crescita – lo puntellano quotidianamente con i loro stili di vita, ignari di correre a perdifiato e senza una meta nella famosa ruota del criceto?
Di chi è la responsabilità, se la segretaria di Warren Buffett paga in proporzione più tasse del suo capo? Di Warren Buffett? Delle leggi del fisco americano? O invece della segretaria che, microscopica pedina del grande gioco di società chiamato Libero Mercato, ne osserva ogni giorno le regole, pur di sfoggiare l’ultima borsetta di Prada al circolo serale del bridge? Troppo facile prendersela con chi scrive le regole, quando poi si è primi ad applicarle fino in fondo.
Ha naturalmente ragione Noam Chomsky, massimo intellettuale vivente e ispiratore del movimento antagonista Occupy, quando afferma che i tre canali per trovare una via d’uscita sono (1) l’occupazione massiva della scena pubblica mainstream, (2) la protezione dagli attacchi violenti tesi a reprimere il diritto del 99% di riunirsi a manifestare e (3) la cancellazione della personalità giuridica delle multinazionali. Ma pensiamoci bene: se i membri del 99% (o almeno una buona parte) decidessero di svincolarsi dall’indottrinamento mediatico, e se alle pleonastiche manifestazioni di piazza preferissero invece virtuose reazioni individuali di radicale (ma roboante) rifiuto del modello dominante, il potere globale delle multinazionali (principali responsabili della concentrazione di ricchezza) svanirebbe progressivamente.
E’ infatti il nostro modo di lavorare, di produrre, di consumare, di nutrirci, di comunicare e di muoverci, a sostenere ogni giorno quel modello fallimentare strutturalmente funzionale alle iniquità distributive, perché fondato sull’illusoria convinzione che tutti possano avere sempre di più. E non basta argomentare che, se anche la segretaria di Warren Buffet desse le dimissioni, tanto poi ne verrebbe assunta un’altra identica alla precedente. Perché anche la successiva potrebbe e dovrebbe fare altrettanto, smettendo di collaborare. E quella dopo, pure. Fino a quando, paradossalmente, a Warren Buffet non resterebbe che scommettere qualche dollaro al videopoker del bar sotto casa.
A scegliere siamo sempre e soltanto noi. Il vero problema è che siamo stati scientificamente disabituati a farlo. Come correttamente ci ricorda lo stesso Chomsky: “Ci stiamo avvicinando all’orlo del baratro della distruzione ambientale. Se si concepisce e si accetta una crescita che implica costanti attacchi all’ambiente fisico che sostiene la vita (ciò contro cui si batte la Bioeconomia, ndr), allora siamo come lemming che si gettano da una scogliera. La crescita non deve per forza significare questo. Per esempio, può significare vite più semplici e comunità più vivibili. Bisogna darsi da fare, non accadrà spontaneamente. Ci vuole un altro tipo di sviluppo e di organizzazione del lavoro.”
E noi? Ciascuno di noi? Troppo facile dire: io ho il mutuo e non posso farlo, che cominci qualcun altro. Il non poterlo fare è il più grande alibi per la nostra indolenza. Non si tratta di paura. Né di calcolo razionale. E’ pura indolenza. Se fosse paura, una qualche reazione chimica al nostro interno ci farebbe reagire per sopprimerne le cause! E se fosse un calcolo razionale, un qualche altro teorema potrebbe dimostrarci l’opportunità dell’opposto! No: è solo indolenza. La verità è infatti che la schiacciante maggioranza di quelli che dicono “non ci riesco” o, peggio, “non posso” stanno in realtà trastullandosi sulla risacca di quella sottocultura dominante di cui non osano ammettere, nemmeno a loro stessi, l’imminente declino.
Tra il carceriere che mente alle vittime per fare i propri interessi e le vittime che mentono a se stesse per fare gli interessi del carceriere, io sceglierò sempre chi ha almeno consapevolezza del proprio ruolo.
Se la reazione non avverrà in interiore homine, saranno certamente le circostanze – certamente in modo meno pacifico – a indurci all’azione. Per volontà o per necessità, saremo infatti tutti costretti a cambiare. A questo proposito, è utile ricordare quanto afferma il professor Bonaiuti proprio nella prefazione alla Bibbia dei bioeconomisti: “Due sono essenzialmente le alternative. La prima è che una qualche catastrofe di dimensioni planetarie induca una profonda revisione delle preferenze. La seconda è che una profonda revisione delle preferenze eviti la catastrofe.”
Lo dico da sempre: a meno di un collettivo, imperioso (e improbabile) risveglio delle coscienze, l’unico modo per superare questa “crisi” è accelerarla. Ed è proprio per questo – si sarà ormai capito – che sto con l’uno percento.