Richard Burdett, che ha firmato il primo progetto per l’esposizione universale, spiega: “L'obiettivo era evitare che i padiglioni diventassero una sfida olimpica tra nazioni. L'idea è stata stravolta"
Cammina, sorride e fotografa con il suo iPhone come fosse uno dei tanti visitatori che si aggirano per i padiglioni di Expo. Ma Richard Burdett è un visitatore particolare. Chief adviser delle Olimpiadi di Londra 2012, è l’archistar che ha firmato il Concept Plan di Expo, il primo progetto per l’esposizione universale. Ora è qui per vedere che cosa è rimasto e che cosa è cambiato da quell’idea iniziale. “È rimasto l’impianto urbano dell’Expo, costruito su due grandi strade che s’incrociano, come nelle città romane, il decumano e il cardo. Ed è rimasta la densità di esperienze dei padiglioni, che si succedono rapidamente a destra e a sinistra, una accanto all’altra, senza posizioni di privilegio”.
Burdett era stato chiamato all’inizio dell’avventura di Expo insieme ad altre archistar internazionali, Jacques Herzog (quello dello stadio-nido di Pechino), Joan Busquets (il responsabile del progetto olimpico di Barcellona) e Stefano Boeri. Insieme a Carlin Petrini, il papà di Slowfood, avevano creato un Concept Plan che sovvertiva l’idea tradizionale dell’esposizione. “Avevamo ideato fin dall’inizio non un modello Disneyland, ma un modello urbano, costruito su due grandi strade. La nostra prima preoccupazione era stata: come evitare di fare un Expo come Expo. Evitare le tipologie delle esposizioni degli ultimi venti-trent’anni, con interventi molto muscolari in cui alcuni padiglioni dovevano vincere rispetto agli altri. Volevamo invece un modello che, finiti i sei mesi dell’evento, restasse per almeno duecento anni, come un pezzo di città”.
Che cosa è andato perso dell’idea iniziale, quella del Giardino Planetario? “Avevamo ipotizzato che almeno il 50 per cento dello spazio assegnato a ogni Paese restasse aperto, a verde, anzi, fosse coltivato e produttivo. Ogni nazione poteva mostrare i suoi prodotti, a destra un campo di riso, a sinistra una piantagione di caffè e così via. Questa idea è stata completamente stravolta”. Come quella di padiglioni che fossero tutti molto semplici: “Noi volevamo evitare che Expo si trasformasse nelle olimpiadi dell’architettura, con ogni nazione che facesse a gara per proporre le forme più strane. Volevamo proporre di fare di più con il meno. Perché gli edifici non sono più importanti dei contenuti”.
Il miglior padiglione dal punto di vista architettonico? “È quello del Cile”, secondo Burdett. Ma quelli che lo incantano di più sono quello del Sudan, molto semplice e verde, e quello dell’Austria, creato da Klaus Loenhart: un bosco ricostruito con il suo microclima. La vegetazione è irrorata da piccole vaporizzazioni di acqua che rinfrescano la temperatura, innescano la traspirazione delle piante e creano una brezza naturale. “È la prova che la nostra idea di Expo era realizzabile”, interviene Stefano Boeri, “mettendo in scena i paesaggi, più che i prodotti alimentari”.
Expo è un grande lunapark? “That’s ok”, risponde Burdett, “questo va bene! Il lunapark è un modello che ha un ruolo importante nella vita urbana, è una forma di divertimento molto democratica. Andare a Expo non è come entrare agli Uffizi o al Moma di New York”. E il problema non sono neanche i costi in sé, ma il dopo. “Noi a Londra abbiamo fatto le Olimpiadi che sono costate 12 miliardi. Il vero problema non è il costo, è che cosa resta degli investimenti fatti, una volta finite le Olimpiadi o l’Expo. Se noi torniamo qui il maggio dell’anno prossimo e troviamo un’area desolata, senza ruspe e senza idee, allora è uno spreco di soldi. Se invece, com’è successo a Londra e a Barcellona, questi eventi sono l’inizio di qualche cosa, ne sarà valsa la pena. Come la situazione che conosco bene, quella di Londra, dove gli investimenti per le Olimpiadi sono stati l’avvio di un lavoro che durerà venti o trent’anni per costruire un nuovo pezzo di città”.
Dopo il lungo cammino attraverso tutto il decumano, arriviamo con Burdett allo spazio di Slow Food, confinato nell’ultimo lembo dell’area Expo. “Sì, arrivare fin qui è un atto di fede”, dice Carlin Petrini accogliendo come vecchi amici Burdett, Herzog e Boeri. “Così com’è, Expo è un’occasione persa”, dice senza mezzi termini l’ideatore di Slow Food. “I Paesi hanno investito grandi somme nell’architettura dei loro padiglioni, ma hanno dimenticato i contenuti. E, soprattutto, hanno dimenticato i contadini che con il loro lavoro sfamano il mondo. Dovevano essere la vera anima dell’esposizione. Invece vedo che qui fanno un figurone nazioni che nei loro territori non rispettano i contadini”. Perché Expo è riuscito così? “Colpa dell’insipienza della politica italiana. L’Italia ha avuto l’occasione e il privilegio di essere il Paese che poteva prendere in mano questi temi e diventare un’agorà internazionale. Invece non ha avuto leader politici all’altezza”. Poco distante, il commissario Expo Giuseppe Sala ascolta in silenzio le critiche di Petrini. “Sala può essere paragonato al Cireneo”, dice sorridendo il creatore di Slow Food, “cioè una persona di buona volontà che aiuta a portare la croce, ma che certo non risolve il problema. Noi daremo la parola ai contadini, pescatori e allevatori di Terra Madre: arriveranno a Milano da tutto il mondo, dal 3 al 6 ottobre. Aiutateci a farli arrivare”.
Da Il Fatto Quotidiano del 20 maggio 2015