Pellicani coperti di petrolio, spiagge sporche di catrame, lunghe scie nere in mare. Sembra un brutto film, invece è quello che è successo qualche giorno fa in California in una delle più belle spiagge di Santa Barbara. L’ennesimo sversamento di petrolio, stavolta causato dalla rottura di un oleodotto, sta interessando un’area di oltre 32 chilometri di costa e si spinge fino a 8 chilometri al largo. Verso un ampio tratto di mare, in un’area tutelata dal parco statale di Refugio State Beach, habitat di numerosi uccelli marini, come i pellicani, e di due specie a rischio estinzione: il piviere nevoso (Charadrius nivosus) e il fraticello americano (Sternula antillarum).
Ci sono inoltre preoccupazioni per le balene che migrano attraversando questo tratto di mare. Ancora una volta sono gli animali a soffrire di più per le conseguenze della nostra sete di petrolio. È ormai dimostrato come gli sversamenti di petrolio in mare, soprattutto se gravi e consistenti come quello avvenuto nel Golfo del Messico a seguito della esplosione della piattaforma Deepwater Horizon, causino gravi impatti ambientali, riscontrabili anche a distanza di parecchi anni. Recenti ricerche scientifiche hanno dimostrato che c’è un legame tra l’aumento del numero di delfini morti nel nord del Golfo del Messico e la marea nera dell’aprile 2010.
Per giunta, la costa di Santa Barbara purtroppo non è nuova a questo tipo di disastri: a poche miglia dall’area di Refugio State Beach, nel 1969 avvenne uno dei maggiori sversamenti di petrolio della storia statunitense, causato dall’esplosione di una piattaforma. Ci vollero ben dieci giorni per riparare la falla, e nel frattempo si riversarono in mare milioni di litri di petrolio che uccisero delfini, elefanti marini, leoni marini e 3500 uccelli, oltre a danneggiare la pesca e il turismo. Non si tratta infatti solo di una questione ambientale: come nel 1969, anche in queste ore sono state immediatamente fermate le attività di pesca e di raccolta dei molluschi. E si temono gravi conseguenze per le economie locali, sia nel breve che nel lungo periodo.
A quanti altri disastri dovremo ancora assistere prima che i governi si decidano a fermare questa follia fossile, che minaccia il clima globale e distrugge i nostri mari? Gli sversamenti non sono mai un incidente, bensì la diretta conseguenza di misure di prevenzione e controllo insufficienti, adottate da compagnie petrolifere che mettono il loro interesse davanti a ogni rischio per l’ambiente e per la salute umana.
Siamo stufi di sentir dire, anche dal nostro governo, che le perforazioni in mare sono “sicure”. È facile poi versare lacrime di coccodrillo a disastro avvenuto, quando a soffrire sono sempre gli stessi: il mare e le comunità che da esso dipendono.
L’incidente avvenuto in California – solo l’ultimo di una lunga serie, purtroppo – dovrebbe far riflettere profondamente il governo Renzi che, invece di sostenere le energie rinnovabili, ha deciso di trivellare i nostri mari, nonostante sotto i fondali italiani siano state accertate risorse petrolifere irrisorie, equivalenti a 7-8 settimane di consumi nazionali.
Nelle ultime settimane sono stati autorizzati diversi progetti di estrazione di petrolio al largo delle coste abruzzesi, in un’area che nel 2001 era stata scelta per istituire di un parco nazionale, finora mai nato. Per il vantaggio di poche compagnie petrolifere si mette a rischio un bene collettivo, il mare. Un bene che, se tutelato nel modo adeguato, potrebbe rappresentare una risorsa eccezionale per il turismo e per la pesca sostenibile, a tutto beneficio delle comunità locali. Per questo, sabato 23 maggio, Greenpeace sarà in piazza a Lanciano, al fianco dei cittadini abruzzesi che chiedono un nuovo modello di sviluppo a tutela del nostro mare.