TOMORROWLAND di Brad Bird – Usa 2015, dur. 120 – Con George Clooney, Hugh Laurie
Che ne sai tu di un campo di grano? Dopo Tomorrowland va aggiornata la lista dei mondi futuri possibili. Basta che i protagonisti tocchino la spilletta con la T ed eccoli catapultati momentaneamente in mezzo ad un mare di morbide spighe gialle: un’altra dimensione spaziotemporale, che è poi la città idealizzata e popolata da trenini che viaggiano nel vuoto e architetture plastiche di un domani avveniristico che potremmo o vorremmo immaginarci. Sta molto in questa trovata visiva la riuscita del titolo Disney firmato Brad Bird. Quindici minuti iniziali di peripezie, ritmo e sorprese fanciullesche alla Spielberg, poi un interludio chiacchierato ed esplicativo per far partire realmente la narrazione e una lunga chiosa zeppa di sottofinali dove i due fideistici conoscitori della scienza e delle tecnologie, l’uno pessimista e l’altro ottimista, uno bimbo prodigio poi adulto autoisolatosi e l’altra ragazzina sapiente con babbo ingegnere Nasa, sconfiggono il villain (un dottor House/Laurie piuttosto monocorde) ridando speranza ad un mondo positivo che verrà. Colpiscono l’accorta mimetizzazione tra set reale e ricostruzione digitale, l’understatement di Clooney anche per film che non sono commedie romantiche, la dialettica tra una visione del futuro visto con gli occhi di chi viveva negli anni sessanta e di chi vive oggi, la volontà Disney di infondere il proprio poetico ottimismo in un’epoca di buie distopie. Tante le citazioni divertite e divertenti tra cui Men in black e Star wars. Il vero beagle Bomb Squad che appare sullo sfondo nella sequenza del negozio che esplode sembra uscito da Ratatouille. 3/5
SURVIVOR di James McTeigue –Usa 2015, dur. 96 – Con Pierce Brosnan, Milla Jovovich
Una spy story con intrigo internazionale può anche tenere di riserva le dinamiche action e strizzare l’occhio al thriller cospirazionista. Almeno questo è quello che capita in Survivor del redivivo McTeigue (V per Vendetta). Un’eroina dagli occhi azzurri impiegata al Dipartimento di Stato Usa sezione londinese per bloccare possibili infiltrazioni terroristiche, una volta fermato un sospetto per il visto, finisce per diventare lei stessa bersaglio di un killer al soldo di un’organizzazione criminale che si è infiltrata persino tra i suoi colleghi. Scampata ad un attentato dinamitardo, incolpata di un omicidio, con qualche mossetta di judo e un paio di furbate di script salverà se stessa e sventerà il complotto mondiale che vuol compiere una strage a Times Square. Molto sbilanciato sulle cupe atmosfere post 11 settembre, la regia si concentra su una tessitura di inseguimento e fuga dove smartphone, videocamere di strada e schermi tv, sembrano più pericolosi dei veri sanguinari inseguitori. Il ruolo della Jovovich ricorda parecchio il personaggio di Redford ne I tre giorni del condor di Pollack. Brosnan, killer apparentemente spietato ma anche parecchio imbranato, dieci si e no venti battute tra cui una memorabile in lingua originale che è: “Fucking Technology”. Astenersi perditempo che fanno le pulci sulla credibilità del plot. 3/5
YOUTH di Paolo Sorrentino – Italia 2015, dur. 115 – Con Michael Caine, Harvey Keitel
Un obeso Maradona che palleggia armoniosamente con una pallina da tennis, Caine/direttore d’orchestra che dirige le mucche alpine con i loro campanacci, una deprimente escort accompagnata dalla madre, la giovane star hollywoodiana che deve interpretare Hitler. Questi gli highlights iperbolici, gli spiazzamenti percettivi che sottolineano le “trovate” sorrentiniane di Youth. Una volta superate queste, c’è la storiella dei vecchietti che fanno poca pipì, un po’ Statler e Waldorf dei Muppet, un po’ morte a Venezia, perché in fondo il cinema di Sorrentino è sempre stato innervato da questa mestizia pop, una sinfonia sepolcrale inquadrata con eccentricità. Il marchio di fabbrica di una poetica ciondolante in una sardonica indolenza. E dopo Youth tutto torna: il suicidio ne L’uomo in più, il fine corsa andreottiano, l’impotenza di Titta de Le conseguenze…. Un caleidoscopio umano disincantato, piegato come gli orologi di Dalì tra le sedie e le vasche di una Spa del benessere in cui più che il racconto decadente del tempo che passa, per il direttore d’orchestra e il “coetaneo” amico regista, si osservano corpi sfatti, tette e culi cadenti, pelle già morta (c’è un primo piano di Caine sotto massaggio in cui non si distinguono più le sue parti del corpo). Sorrentino non racconta mai granché con le parole e i dialoghi (gli aforismi sull’ “emozione” e sulla “leggerezza” sono da galera): lui osserva solo e attraverso l’obiettivo della m.d.p. fa guardare anche noi e qui prova perfino a farci “toccare” quella carne inanimata che non dà più senso, o ne dà sempre meno, all’esistenza. Anche se le montagne, gli alberi, e le pareti di almeno due tre location per farne una, ne occludono comunque sguardo e profondità di campo (nel segmentino su Venezia torna lui con quella carrellata sotto al ponte). Keitel si mangia Caine, ma meglio non dirlo, il film si è fatto perché scritto su Caine. 5/5 o 1/5 a seconda se si è fan o meno di Sorrentino