Il 7 aprile del 1994 in Ruanda ebbe inizio uno dei massacri più allucinanti di sempre: il genocidio perpetrato dagli hutu, l’etnia maggioritaria, a danno dei tutsi prima, e degli hutu moderati poi. In 101 giorni vennero sterminate un milione di persone: un omicidio orrendo ogni dieci secondi. Di punto in bianco, i vicini di casa diventarono i peggiori carnefici e la minoranza tutsi, che pure costituiva il segmento più scolarizzato e secolarizzato della nazione africana, un ricettacolo di “inyenzi”. Scarafaggi, da calpestare ed eliminare.
Pochi giorni dopo, il 13 aprile del 1994 un gruppo armato hutu entrava in casa di Bibi, la protagonista di un libro toccante (con happy end) scritto dalla giornalista del Tg2 Cristiana Ruggeri, “Dall’inferno si ritorna” (edito da Giunti). Quando, molte ore dopo, Bibi si è svegliata, non ha ricordato subito cosa era successo: ha avvertito solo il desiderio, stringente e struggente, di bere succo d’ananas. All’epoca aveva 5 anni. “Ero sdraiata a terra fradicia, quando ho ripreso i sensi. La gola era talmente secca che respiravo a fatica, sentivo un sibilo nella testa, la vista era confusa, le idee non c’erano proprio. Era come vivere al rallentatore. Ma il desiderio di bere succo d’ananas era più forte di tutto. Di certo, devo molto a quella sete: è stata la leva che mi ha fatto alzare di nuovo”. Aveva il braccio destro dilaniato, l’addome perforato dai proiettili, lesioni alla nuca e a un orecchio causate dai calci. Nella stanza, insieme a lei, i cadaveri sfigurati della mamma, del fratellino, della zia, dei cuginetti. Questo libro-memento è la sua storia. Oggi Bibi vive a Roma dove studia medicina. “Dall’inferno si ritorna. Eccome. Ma a farlo sono in pochi e se ne stanno zitti. Non lo raccontano, hanno quasi paura a essere felici. Li chiamano sopravvissuti, miracolati. Ma chi ritorna è un vincitore, perché ci ha creduto, perché quando tutto intorno era nero ha saputo trovare la luce. Chi è tornato dall’inferno è nato un’altra volta e non lo ferma più nessuno”.
Il diavolo si impossessò del Ruanda, un posto “dove la natura esplodeva incontrastata e piccoli villaggi sorgevano sulle mille colline verdi come tante gemme preziose. Dio amava il mio paese: ci aveva dato le foreste i laghi, i vulcani, la terra fertile”. La pulizia etnica si era fatta in qualche modo annunciare, ma è sempre difficile credere a un imminente olocausto di massa, per mano per giunta insanguinata di persone con cui condividevi tranquillamente gli stessi spazi e la stessa aria fino al giorno prima. “Uccidete i tutsi, gli scarafaggi sono pericolosi, vogliono distruggere il Ruanda: fatelo di corsa prima che loro uccidano voi”. “Non uccidete questi scarafaggi con un proiettile – gridava la nota conduttrice Valérie Bemeriki dalle frequenze radiofoniche di Mille Collines -: fateli a pezzi con il machete”. All’improvviso, in Ruanda, “la paura correva sul filo. Il vicino di casa, l’amico di sempre, il compagno di scuola non ti rivolgevano la parola. Fino a quei giorni di orrore non sapevo nemmeno cosa fosse una differenza di etnia. All’improvviso essere tutsi voleva dire morire”.
Dopo la fuga in Zaire, il ritorno in patria, l’orfanotrofio, la piccola Bibi è riuscita a tornare dall’inferno perché ha incontrato nel suo cammino figure misericordiose: in particolare Joseph, l’uomo della porta accanto, che mise a repentaglio la sua vita per proteggerla; Mama Lucy, moglie del colonnello, la madre inaspettata benché di “etnia nemica”; e la mamma italiana a distanza. Bibi è tornata perché le donne ruandesi, nonostante le torture e gli stupri di massa, “si sono piegate ma non distrutte e con una forza che solo gli angeli possono donare, hanno guardato avanti. Si sono alleate contro ogni logica umana di rivalsa e di vendetta. Hanno raccolto i resti di un meraviglioso Paese quasi senza più uomini e con troppi cadaveri non seppelliti. Da quelle lacrime, dai loro sacrifici, la mia gente è risorta. Per la lungimiranza delle donne, il Ruanda oggi ha di nuovo i suoi tramonti senza sangue e la sua gente vive per ricostruire”.