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L’Unità, Veneziani indagato passa la palla a Pessina habituè dei conti all’estero

Nelle intenzioni del Pd il passaggio di testimone dovrà garantire “trasparenza e massima tutela e affidabilità del nuovo progetto editoriale”, ma il patron dell'omonima società di costruzioni ha da tempo una lunga lista di cose su cui fare trasparenza. La sua presenza nell'elenco dei clienti italiani del barone del riciclaggio Filippo Dollfus è solo l'ultima

Guido Veneziani molla la presa sull’Unità, ma non del tutto. È la prima conseguenza delle indagini per bancarotta fraudolenta a carico dell’editore che, come rivelato da ilfattoquotidiano.it riguardano le vicende della stamperia piemontese Roto Alba, ormai sull’orlo del fallimento. Ma la decisione del Pd e degli altri soci del quotidiano per cavarsi dall’imbarazzo rischia di trasformarsi nella più classica toppa che allarga il buco, visto il curriculum del nuovo azionista di maggioranza del giornale, Massimo Pessina, che già aveva tentato l’impresa un anno fa senza però riuscirci.

Il cambio in corsa si è consumato venerdì 22 maggio, nel corso della riunione del consiglio di amministrazione dell’editrice, alla quale viste le problematiche delicate da affrontare, ha partecipato anche il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi, che insieme al segretario Matteo Renzi ha in mano la partita del rilancio del quotidiano fondato da Gramsci. Qui Veneziani ha presentato le sue dimissioni da presidente del cda e ha accettato di diluire le sue quote, a vantaggio della Piesse srl, il cui 60% attualmente fa capo a Pessina, mentre il restante 40% è intestato a Guido Stefanelli, l’amministratore delegato della Pessina Costruzioni anche se secondo l’editrice la proporzione è stata recentemente invertita. A loro, in ogni caso, andrà il 76% della società editrice contro il 38% detenuto in precedenza, mentre Veneziani scenderà dal 57 al 19 per cento. Invariata la quota del Pd, il 5% custodito nella fondazione Eyu.

L’ormai ex cavaliere bianco del quotidiano, contattato da ilfattoquotidiano.it spiega il suo passo indietro con la volontà “di non mettere in imbarazzo il partito del presidente del consiglio”, sebbene sostenga che l’avviso di garanzia ricevuto “è illegittimo, perché ipotizza la bancarotta fraudolenta per un’azienda che non è ancora fallita”. Aggiunge poi di avere trovato “solidali” Bonifazi e tutti i consiglieri: “Mi è stato chiesto fortemente di rimanere nella compagine sociale, visto che da sei mesi studio questo progetto editoriale. E io ho accettato di continuare a essere l’editore della prossima Unità” che deve tornare in edicola entro il 30 giugno e che al momento è ancora senza direttore, ma ha già un vicedirettore, Vladimiro Frulletti, il giornalista che per il quotidiano seguiva Renzi che ha ricevuto l’incarico venerdì.

Ufficialmente, invece, nelle intenzioni del Pd il passaggio di testimone tra Veneziani e Pessina in testa all’azionariato, dovrà garantire “trasparenza e massima tutela e affidabilità del nuovo progetto editoriale”, come ha sottolineato Bonifazi in una nota esprimendo forte apprezzamento per il gesto dell’editore che “mira a sgombrare il campo da ogni speculazione”. Peccato che il patron dell’omonima società di costruzioni che si è fatto avanti, abbia di suo da tempo una lunga lista di cose su cui fare trasparenza. Ultima in ordine cronologico la sua presenza nell’elenco dei clienti italiani di Filippo Dollfus, il barone del riciclaggio internazionale arrestato a Milano all’alba del 26 aprile scorso. Il nome di Pessina, infatti, compare nella lista di coloro che si erano affidati al finanziere svizzero e ai suoi associati per “trasferire all’estero ed occultare denaro o utilità nella gran parte dei casi provenienti da delitti di appropriazione indebita, evasione fiscale, corruzione o riciclaggio”, come si legge nell’ordinanza depositata il 29 aprile scorso.

Sempre per restare in tema di evasione, il costruttore figura anche tra i clienti della Hsbc di Ginevra svelati dalla lista Falciani: secondo quanto riportato dall’Espresso il 18 febbraio scorso, è stato titolare di un conto chiuso nel 2003, quando il deposito ammontava a circa 9mila dollari. Una scoperta che non stupisce, visto che prima ancora Pessina, citato anche nelle carte dell’inchiesta sugli appalti Expo insieme a Stefanelli e salito agli onori delle cronache per essere stato tra i finanziatori dell’ex presidente della Provincia di Milano Filippo Penati con 15mila euro, era comparso nell’elenco dei “furbetti di San Marino“. Ovvero la lista degli italiani che avevano portato i loro soldi nella Smi Bank del Titano venuta a galla nel 2010. E, giusto per non farsi mancare niente, due anni prima il nome di Pessina e dei suoi familiari era spuntato anche tra quelli degli italiani titolari di conti a Vaduz, in Liechtenstein, con depositi complessivi per oltre 30 milioni di euro.

di Luigi Franco e Gaia Scacciavillani