E' solo del 1959 il primo film che porta sul grande schermo il conflitto: con "La grande guerra" il grande regista romano racconta, senza troppo spingere il pedale del grottesco, i limiti dei comandi militari italiani prestando il fianco a parecchie polemiche dal fronte dei reduci e combattenti come dall’esercito
“Aggrappati al pendio, in tane semisotterranee, i miei soldati passano il tempo sul suolo, come porci in letargo: dimagrano per questa vita orizzontale e si infiacchiscono. Ma la ragione determinante della mia attuale prostrazione è un’antica, intrinseca qualità del mio spirito, per cui il pasticcio e il disordine mi annientano”. Così parlò il sottotenente degli alpini Carlo Emilio Gadda nel Giornale di guerra e di prigionia – Diario di Caporetto (Garzanti, 2008), diario che lo scrittore milanese tenne dal fronte di guerra dal 24 agosto 1915 e il 31 dicembre 1919, con tanto di cattura da parte degli austriaci dopo la disfatta di Caporetto nell’ottobre del 1917. Curioso e pignolo, nei suoi taccuini riempiti da disegni e note, Gadda sembra mostrare già i prodromi stilistici da futuro romanziere. Altrettanto certa è l’incapacità da parte di un ufficiale di truppa come lui di comprendere il senso complessivo delle operazioni di guerra, come del resto avvenne per molti soldati semplici. Pur mazziniano convinto e volontario sull’Isonzo, Gadda raccoglie nei diari più che altro i suoi umori che non sembrano aver molto a che fare con la retorica dell’interventismo dannunziano o l’autentico slancio risorgimentale di un Cesare Battisti. Curioso che l’intera opera esca soltanto in una primissima edizione non molto popolare quasi 40 anni dopo (nel 1955).
Difficile parlare in forma di romanzo o di film della “grande guerra” in Italia: materiale retorico come un altro per il fascismo, profonda fenditura della memoria difficilmente affrontabile per le forze progressiste che dominano la cultura italiana nel dopo seconda guerra mondiale. Basti pensare che è solo del 1959 il primo film che ne affronta con un sorriso beffardo il senso di “inutile strage”. La Grande Guerra di Mario Monicelli, prodotto da Dino De Laurentiis, vede protagonisti i due volti più noti del cinema italiano: Vittorio Gassman e Alberto Sordi, rispettivamente il fante milanese Giovanni Busacca e il fante romano Oreste Jacovacci. Arruolati a forza nonostante i comici bluff, i due vivono per la prima volta sul grande schermo il dramma della trincea e nonostante la codardia s’immolano convintamente contro il nemico.
Leone d’oro al festival di Venezia, un Cinemascope leggendario per lo stile di Monicelli, uno stuolo inarrivabile di caratteristi per illustrare la pletora di disperati e disillusi soldati carne da macello provenienti da ogni parte del paese, ne La Grande Guerra senza troppo spingere il pedale del grottesco, vengono mostrati i limiti dei comandi militari italiani prestando il fianco a parecchie polemiche dal fronte dei reduci e combattenti come dall’esercito, nonostante la popolarità dell’operazione commerciale. Lo stesso Gadda ebbe a dire del film con un certo fastidio: “Nessun pubblico francese o tedesco riderebbe a quel modo se i sacrificati, se i nomi in gioco, fossero di Francia o Germania”.
Ancora un libro, ancora una fine contestata per la pubblicazione. E’ Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu (Einaudi) uscito nel 1937 in pieno ventennio senza troppa fortuna proprio per contrastare la retorica fascista sulla prima guerra mondiale. Lussu, sottoufficiale dell’eroica Brigata Sassari nel ’15-‘18, interventista liberaldemocratico vicino a Salvemini, compone senza concedere nulla all’emotività un diario dal fronte in cui emerge la crudeltà della sadica disciplina militare e il sacrificio continuo di uomini per assalti alla baionetta alla luce del giorno e sotto le mitragliatrici austriache. L’antifascista Lussu invitato proprio dai compagni d’esilio a scrivere il romanzo, diventerà poi deputato del partito socialista nel dopoguerra. Da questo gioiello letterario Francesco Rosi trarrà un film altrettanto misconosciuto nel 1970: Uomini Contro.
Un pamphlet politico crudo, innervato da decine di azioni di guerra ricostruite con discreto dispendio di mezzi in Jugoslavia, con un’impostazione pacifista e il tratteggio robusto del senso di rivolta alla disciplina militare quasi fosse la metafora della lotta di classe per un appartenente al PCI come all’epoca era Rosi. Con lui sul set sempre sulla falsariga dell’ideale ribelle ci sono Gian Maria Volonté e Mark Frechette, quest’ultimo divo per Antonioni in Zabriskie Point e leader di una comune statunitense che finì nel sangue tra rapine e furti. Uomini contro fu denunciato per vilipendio all’esercito italiano e diventò oggetto di attacco in discorsi pubblici di molti esponenti della destra eversiva. Per altri vent’anni però lo sguardo sulla “grande guerra” si rispegne. Sarà uno dei più importanti registi italiani, Ermanno Olmi, con Torneranno i prati (2014), a ricordare l’insensatezza del conflitto con una chiosa lasciata recitare ad un pastore dopo la ritirata dei soldati: “La guerra è una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai”.